VinOsa

Del Soave e dei trucchi nei nomi

Parlare del Soave significa parlare di un vino che raccoglie in sè il meglio e il peggio dei commenti e delle critiche sui vini italiani: “uno dei migliori bianchi italiani al mondo” contrapposto al “vinello acquoso e senza carattere, da osteria tipica veneta”.

Garganega

Il Soave riesce a raggiungere, quindi, vari primati agli estremi della scala e, come abbiamo visto in altri post, racchiude anche qualche piccolo effetto “ahh!””ohhh!””uhhh!”.

Partendo proprio dalle basi che più basi non si può, allora iniziamo dal nome.

Il nome non è il vitigno, per parafrasare un po’ ironicamente un noto capolavoro di Magritte.

Ceci n’est pas une pipe

Il vino Soave è prodotto dalla vinificazione dell’uva bianca più diffusa nel veronese, la Garganega.
Da disciplinare della DOC,

– esiste anche una DOCG interna alla macroarea del Soave che si chiama Soave Superiore DOCG che è, pure, interna alla zona del Soave Classico –

il Soave deve essere vinificato con almeno dal 70 al 100% di uve Garganega. Il restante, stiamo parlando di circa 6.000 ettari vitati, è coltivato a Trebbiano di Soave.
Ultimamente, sempre da disciplinare, il Trebbiano può essere anche sostituito da Chardonnay (un gentile omaggio alla solita varietà internazionale bianca) che può essere sostituito anche da altre varietà purché non aromatiche.

Se volessimo partire da ancora prima, come si fa nelle belle descrizioni e nelle presentazioni blasonate, allora dovremmo partire dai suoli. E allora ok, parliamo del suolo: ci sono essenzialmente quattro tipologie nella zona della DOC che in parte si ritrovano anche nella più ristretta zona del Classico.

Faccio uno schemino così diventa di più semplice lettura e procedo da est a ovest (l’immagine in evidenza del post riguarda questa classificazione che, se vi annoiate, potete anche saltare):

Bene, ora che abbiamo descritto i suoli possiamo tornare alle piante e, quindi, al vino.
La Garganega è un vitigno molto produttivo, fin troppo a volte, che regala vini con spettri aromatici primari prevalentemente fruttati — pesca bianca e gialla, qualche cosa di mela — e fiori bianchi, come il biancospino. Con le quantità produttive dei vecchi nonni, oggi quasi impensabili se si vuole parlare di qualità, si aveva una specie di acqua un po’ saporita e alcol. Ora, a seconda delle zone di provenienza, vedi le caratteristiche dei suoli prima descritte, si possono avere vini molto interessanti che, a seconda se di collina o di pianura, si differenziano per la presenza o meno di note più sapide e quasi salmastre e di una “mineralità” più pronunciata a discapito dei sentori primari fruttati.

Mappa dei cru del Soave Classico

Tra i vari primati che questa DOCG possiede c’è anche quella di essere stata mappata, zonizzata e divisa in cru come solo in Toscana e nelle migliori regioni vinicole francesi si può trovare. Qui i cru hanno nomi fortemente legati al territorio e al dialetto della regione, alcuni dei quali davvero particolari. I cru più ambiti, ed anche più pregiati, sono quelli che scalano i fianchi impervi delle colline e resistono a pendenze davvero da capogiro. Qui nascono i migliori Soave, quelli che spesso vengono vinificati in purezza e non hanno nulla da invidiare ai più spettacolari bianchi internazionali. E’ qui, infine, che si riprende la vinificazione dei bianchi sulle bucce – mai completamente abbandonata nelle piccolissime cantine della regione (lo si fa, come lo si faceva, anche nella zona di Valdobbiadene) – e si fa fare la malolattica al vino. A volte, dipende dalle scelte del maestro di cantina, anche un passaggio in legno non viene disdegnato.

E’ così che il Soave cambia vestito e da Cenerentola che pulisce i pavimenti delle osterie venete si trasforma in una regina sontuosissima: il colore da giallo paglierino si trasforma in quasi oro, lievissimamente velato ma ancora non propriamente torbido; i profumi si evolvono e la frutta nostrana acquista sentori di frutta tropicale pronunciatissimi; emerge, come una voce solitaria, la nota di mandorla che prima era solo accennata. Alcuni strutturano anche di più il corredo aromatico con il rafforzamento dei terziari che si insinuano in bocca con note di vaniglia, lievissime, ma soprattutto di burro e pasticceria.
A questo punto non è più il vinello del “goto” veneto, ma un vino inteso, corposo, elegante, lunghissimo e molto importante.

Ed è esattamente così che si manifesta, al naso e in bocca, il Soave Classico La Rocca della cantina Pieropan, una delle massime espressioni del Soave in grandissimo spolvero con queste note in crescendo di fiori-frutta-burro che ti prende e ti fa finire la bottiglia in un amen. E la Rocca, se si guarda la cartina – è uno dei 29 cru della zona del Classico che ho riportato qui sopra.

Soave Classico – La Rocca – Pieropan 2017

Ora, se torniamo al cultivar, dobbiamo ricordare che la Garganega, che tanto viene conclamata come vitigno autoctono veneto, non è altro che il Grecanico dorato, come abbiamo già detto QUI, parlando degli antenati del Grillo.
In effetti, il nome della pianta veneta è solo una corruzione lessicale di carattere dialettale del Grecanico.

Ma non basta.

Secondo tradizione, per sostenere la struttura del vino, in Veneto si era soliti mescolarla con un’altra tipologia di uva, il Trebbiano di Soave, che aiutava il Soave stesso con sentori minerali, una struttura più presente e con una longevità più accentuata.

Trebbiano di Soave

Beh, sorpresa, anche il Trebbiano di Soave non è del Soave. Sempre grazie ai famosi studi di genetica del vino, si è scoperto che questo vitigno non è altri che il Verdicchio marchigiano, di cui si hanno attestazioni già nell’Alto Medioevo in atti notarili di donazioni di proprietà di vigne a ordini religiosi. Nel 1991 viene riconosciuto come Trebbiano di Soave al Registro Nazionale delle Varietà di Vite dove è iscritto dal 1970. Ma è Verdicchio.

I sinonimi con cui è conosciuto vengono finalmente tutti cassati, a parte alcuni che per qualcuno vengono definiti “bizzarri”: Verzello, Terbiana e Turbiana.

E qui c’è un altro effetto “ohh!”: la Turbiana, che per il Soave viene definito Trebbiano di Soave – ma che abbiamo appena visto, è di fatto il Verdicchio marchigiano – appena un po’ più a ovest, tra le province di Verona e Brescia, si trasforma stabilmente in un’altra denominazione dando origine ad un’altra DOC con un vino del tutto diverso: il Lugana.
DOC che, come era sovente nell’antichità, prende il nome da una località vicino a Sirmione, in provincia di Brescia.

Stessi vitigni, nomi differenti e produzioni vinicole completamente diverse.

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