Proseguono le nostre chiacchierate scientifiche con studiosi di varie università che si occupano di argomenti inerenti la viticoltura, l’enologia e tutto il mondo della ricerca che ruota attorno al vino.
Il Prof. Claudio Massimo Colombo è ordinario di pedologia dell’Università degli Studi del Molise. Attualmente è Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali ed è stato dal 2005 al 2010 componente dell’Osservatorio Nazionale Pedologico (ONP) del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (MIPAF). È, inoltre, membro molto attivo della Società Italiana di Scienza del suolo (SISS) dove ha ricoperto per due mandati successivi l’incarico di tesoriere.
Ha organizzato diverse scuole internazionali tra cui una dal titolo “Forest Soils and Global Changes” ed un master internazionale in “Animal Production and Sustainable Agricultural Development” con la UCU (Universidad de Concepcion dell’Uruguay-Argentina).
I suoi studi riguardano la mineralogia degli ossidi di ferro nel suolo, la formazione dei suoli dell’area mediterranea e tecniche analitiche innovative applicate alle proprietà chimiche del suolo.
Professor Colombo, ci diamo del tu?
Certo!
La prima domanda è un classico di questo blog: come è nata la tua passione per lo studio dei suoli?
E’ nata un po’ per caso, seguendo alcuni seminari sul suolo quando ero studente.
Mi colpì che si sapeva molto poco del suo funzionamento. Dalla curiosità è nato poi un interesse e, alla fine, decisi di fare una tesi sugli ossidi di alluminio e dopo la laurea un dottorato in Pedologia sugli ossidi di ferro.
Tu sei un pedologo. Non tutti quelli che ci leggono sanno cosa sia la pedologia. Ci puoi spiegare cosa è questa branca della scienza?
Possiamo dire che la Pedologia è una scienza moto giovane: è nata dopo la crisi del 1929.
Durante la depressione negli USA molti operai persero il lavoro e si trasferirono verso gli stati agricoli del centro, tra cui l’Oklahoma, la zona delle grandi pianure e delle praterie. Gli agricoltori non conoscevano quei suoli e li lavorarono in profondità seminando monocolture ripetute.
In pochi anni, più della metà dei suoli delle praterie dello stato dell’Oklahoma, ma anche del Kansas, vennero spazzate via dal vento e finirono per formare la Dust Bowl (la tempesta di polvere).
Le nuvole di polvere arrivarono fino a Chicago, mentre la praterie si trasformarono in pietraie sabbiose. Fu allora che il Governo americano decise di fondare il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) che per prima cosa iniziò a classificare i suoli e creò la Soil Taxonomy mettendo le basi della Pedologia.
Oggi è il sistema di classificazione adottato in tutto il mondo.
Questo fu solo l’inizio perché ormai i suoli erano andati perduti e si dovette ripartire da zero con un’agricoltura conservativa, cioè un’agricoltura che non impoverisse il suolo ma al contrario lo proteggesse.
La pedologia oggi si interessa della gestione dei suoli oltre che della loro classificazione.
Oltre a essere un pedologo, sei anche un chimico agrario essendo “nato” scientificamente proprio in questo settore.
Hai, quindi, una visione molto ampia del concetto di “suolo” che va dalla chimica alla pedologia. Puoi parlare ai nostri lettori delle caratteristiche dei suoli italiani? Quali caratteristiche hanno i suoli molisani vocati alla produzione enologica?
I primi ad intuire che il territorio e, in particolare, che i suoli avessero una particolare vocazione per la produzione del vino sono stati i francesi.
Si deve a loro il concetto di “Terroir” per identificare i territori più vocati ad un certo tipo di vitigno. In sostanza, i primi viticoltori francesi, già dalla fine dell’Ottocento, avevano notato che esiste una stretta relazione tra territorio, suolo e vino.
Oggi c’è molta confusione sul termine “Terroir” perché viene spesso confuso con la tradizione enologica o le tecniche della vinificazione, mentre si riferisce al territorio ed al suolo.
Ogni vitigno è espressione di un particolare pedo-clima in cui è coltivato; questo significa che il suolo ed il microclima determinano il carattere e l’unicità del vino che viene prodotto in una determinata zona.
Nel Molise, come in tutto il centro dell’Appennino, i suoli hanno una forte variabilità. In prevalenza sono poco evoluti (sono classificati Cambisuoli perché sono ancora in evoluzione; di qui “cambi” che sta per cambiamento) con un forte contenuto di calcare ed argilla espandibile.
Queste due importanti componenti del suolo influiscono in modo marcato sulle caratteristiche dell’uva e sull’aroma del vino, in particolare dei vini rossi.
La cantina Herero a Campobasso (https://www.cantinaherero.com) ha utilizzato il “Terroir” di questi suoli per produrre un vino difficile come la Tintilia del Molise DOC, vincendo 5 premi prestigiosi nel 2015 e 4 nel 2016.
Questa cantina è un buon esempio di come si può coniugare il “Terroir” e la qualità del vino anche in ambienti svantaggiati.
Conosco il Tintilia, ho avuto la fortuna l’anno scorso di assaggiare l’Opalia 2016. Vino interessante.
Ecco, oltre a queste due componenti del suolo, ce ne sono tante altre che non vengono studiate con attenzione. Per fare uno studio approfondito sarebbe necessario classificare i suoli di interi comprensori. Questo lavoro è stato fatto in Francia già negli anni novanta ed ha portato alla “zonazione” delle aree più vocate alla produzione dei vini di pregio.
Per esempio, per delimitare le zone dello “Champagne” sono stati classificati i suoli di un territorio di circa 28.000 ettari.
La zonazione dei suoli è stata ottenuta con una modellizzazione cartografica e con la raccolta dei dati litologici, topografici e pedologici di dettaglio. Tutte le informazioni sono state georeferenziate e digitalizzate tramite un sistema di informazione geografico (Gis).
Oltre alla zonazione del suolo sono stati effettuati studi per caratterizzare il clima mettendo in rete moltissime stazioni climatiche.
Alla fine di questo complesso lavoro, che è durato molti anni, sono state elaborate le carte pedologiche (dette anche atlanti dei suoli) a scala 1/25.000 anche in molte altre zone viticole di pregio (Cahors, Bergerac, Cognac). La zonazione viticola permette di stabilire la relazione tra suolo-uva-vino e individua le migliori zone viticole per poi adattare le cultivar tradizionali in relazione al “Terroir”.
In Italia poche regioni hanno realizzato la zonazione viticola sulla base del “Terroir”.
Molti viticoltori, purtroppo al sud, preferiscono chiamare l’enologo di fama e risolvere tutto in cantina. Come si dice: “piace vincere facile”.
Invece io penso che il vino si faccia in vigna.
A chi lo dici…
Ho visto che ti occupi anche di tecnosuoli. Ti va di spiegarci cosa sono?
I Tecnosuoli sono da considerarsi dei suoli a tutti gli effetti. La differenza è che hanno subito un forte processo di antropizzazione, cioè sono stati profondamente alterati dalle attività umane. Ciò ha comportato la presenza di un’elevata quantità di materiali estranei che noi chiamiamo artefatti, cioè di origine antropica.
La storia dei suoli è molto antica. Molti sono stati coltivati già all’epoca dei Romani che, già 2.000 anni fa, avevano bonificato e trasformato intere pianure.
Il termine di Tecnosuolo è stato adottato proprio dalla classificazione della FAO, con l’obiettivo di differenziare maggiormente i suoli interessati e modificati dalle attività antropiche (industriali, militari, opere civili, discariche etc.).
Oggi possiamo dire che i Tecnosuoli sono suoli urbani perché si sono formati spesso durante l’espansione urbana negli ultimi 50 anni. Da un punto strettamente pedologico, sono importanti perché molti parchi e giardini sono formati su Tecnosuoli. La pedologia cerca di classificarli in funzione del loro gradiente di antropizzazione e della loro capacità di fornire servizi eco-sistemici e supporto alla vegetazione urbana.
Si potrebbero usare i Tecnosuoli per l’attività agricola e per la produzione viti-vinicola, in particolare? E se sì, cosa ti aspetti in merito alla produttività ed alla qualità dei vini?
Ai Tecnosuoli si richiedono servizi e funzioni più negli ambienti urbani. Le zone viticole sono ancora nelle aree rurali fortunatamente ancora lontane dalle città.
In futuro l’evoluzione delle aree urbane e periurbane potrà spingersi verso le aree collinari e lambire i vitigni, ma per fortuna ci vorrà ancora tempo. Probabilmente un domani si potranno modificare i suoli e cercare di dare delle caratteristiche più adatte alle coltivazioni della vite. In Puglia ed in Sicilia lo si sta facendo spietrando i suoli e macinando i sassi con macchine potentissime. L’effetto è quello di ridurre lo scheletro e aumentare il calcare.
Credo che il suolo ottenuto possa essere definito un Tecnosuolo.
Ho visto che tra i tuoi brevetti ce n’è uno recente che riguarda la sintesi di un concime a base di umato di ferro. Puoi dire ai nostri lettori in cosa consiste? Qual è il vantaggio degli umati di ferro in termini di fertilità dei suoli? Questo concime potrebbe essere usato per implementare la produttività viticola?
Gli umati di ferro sono composti organici naturali insolubili contenenti ferro che possono prevenire e curare la clorosi ferrica. La clorosi ferrica si presenta in molte colture dove si manifesta con un forte ingiallimento delle foglie; questo è il principale sintomo dovuto ad una ferro-carenza. Si tratta di un fenomeno che è spesso confuso con lo stress idrico o con la carenza di azoto ma dipende dalla difficoltà della pianta di assorbire il ferro e determina l’incapacità di sintetizzare clorofilla (per cui la pianta ingiallisce).
Attualmente per ridurre la clorosi ferrica sono più utilizzati i chelati sintetici di due categorie: i Fe-EDDHMA, Fe-EDDHSA e Fe-EDDHA. Questi vengono velocemente degradati se esposti alla luce e si usano sulla radice, mentre altri (Fe-DTPA, Fe-EDTA e Fe-HEDTA) non sono fotosensibili ma sono molto solubili in acqua per cui vengono facilmente lisciviati dal suolo.
Gli umati di ferro sono dei chelati di ferro naturali più stabili perché sono insolubili e la loro degradazione microbica avviene molto lentamente, determinando un rilascio lento del ferro. Il vantaggio è che gli umati di ferro sono più efficaci, mentre la somministrazione dei chelati di ferro di sintesi deve essere ripetuta nel tempo.
Bisogna chiarire che i chelati di ferro non risolvono definitivamente il problema della clorosi perché, una volta esauritasi la loro efficacia, il ferro precipita in forme insolubili e ritorna la ferro-carenza.
La vite su suoli molto calcarei può avere dei forti ingiallimenti per la carenza di ferro e bisogna intervenire subito per evitare che la pianta si indebolisca e possa avere dei danni.
Conviene fare un po’ di chiarezza anche sull’effetto del calcare: quello che conta non è il calcare totale ma il calcio carbonato attivo; quest’ultimo è il carbonato fine responsabile della precipitazione del ferro.
Altro aspetto importante da considerare è il costo elevato dei chelati di sintesi rispetto agli umati di ferro. Inoltre, i chelati sono agenti inquinanti e, legandosi ad altri ioni metallici, provocano il loro allontanamento per lisciviazione.
Infine, i chelati di sintesi, per esempio il sequestrene che contiene EDTA, hanno una azione tossica verso le micorrize ed altri batteri utili. Invece gli umati di ferro sono una fonte di ferro naturale a lenta cessione ma, essendo estratti dalle sostanze umiche, non sono inquinanti ed hanno un effetto positivo sulle caratteristiche del suolo e sulla crescita e la salute delle piante, migliorando la loro resistenza agli stress ambientali.
Gli acidi umici per la sintesi dei concimi a base di umato di ferro devono essere prima estratti. Quanto è sostenibile questa procedura a livello ambientale?
La procedura di estrazione definita dall’IHSS ha circa 50 anni ed è ancora utilizzata con successo. La tecnica prevede un primo trattamento con alcali e poi una successiva acidificazione. L’estrazione chimica con alcali dura alcuni giorni per ottenere una buona quota di acidi umici; con l’acidificazione successiva si ottiene una frazione solubile, rappresentata dagli acidi fulvici, ed una insolubile, rappresentata dagli acidi umici che verranno purificati e separati.
Come tutte le estrazioni chimiche, anche questa richiede tempo e soldi, ma ritengo ancora che sia possibile ottenere un prodotto economico e su una base naturale.
A proposito di sostenibilità. Cosa sono per te e quanto “moderni” ti sembrano i precetti della Brundtland?
Credo che i criteri di sostenibilità siano ancora attuali. Bisogna lavorare concretamente per ridurre la degradazione delle risorse ambientali, tra cui il suolo.
Purtroppo, non c’è cura per i suoli. Una volta che si sono degradati è difficile rigenerarli; la natura impiega migliaia di anni per formare pochi centimetri di suolo ma è possibile distruggerlo in pochi anni.
La storia delle tempeste di polvere avvenuta negli anni 30 in USA si è oramai diffusa anche in Cina ed in Australia.
A Pechino le tempeste di sabbia sono molto frequenti e non vengono da molto lontano: l’erosione eolica dei suoli parte dai pascoli della Mongolia a circa 200 km.
Bisognerebbe che l’uso del suolo rispettasse i vincoli dati dalla capacità di auto-rigenerazione e di equilibrio dell’ecosistema agricolo. L’unico modo che vedo fattibile è di agire e rivedere gli attuali modelli di consumo alimentare, partendo dalla riduzione degli allevamenti intensivi di carne.
Sei il delegato del Rettore della tua Università per le Relazioni Internazionali. In che modo si sta muovendo l’Università degli Studi del Molise a livello internazionale in relazione a corsi di studio vocati alla viticoltura?
Come delegato del Rettore mi sono interessato per molti anni dei programmi Erasmus che ritengo essere l’unico vero programma europeo rivoluzionario che ha messo le basi verso una reale ed effettiva unificazione dell’Europa.
Si potrebbe fare moltissimo in viticoltura facendo corsi di laurea con doppi titoli tra Italia-Francia-Spagna e Germania. La progettazione di corsi in viticoltura internazionali aprirebbe le conoscenze in questo settore e permetterebbe di unire le diverse esperienze nel campo della viticoltura ed enologia.
In Italia io vedo esattamente il contrario: ci si chiude nelle piccole realtà come se si avesse l’esclusiva sulle conoscenze in viticoltura.
Alla fine pochi Istituti del nord monopolizzano il settore con le conseguenze che vediamo.
È arrivato il momento della domanda provocatoria n. 1
Ipotizziamo che ti fosse messo a disposizione un fondo illimitato da poter gestire per la viticultura. Non hai vincoli, non hai controlli, nessuna necessità di rendicontazione e nemmeno limitazioni di spazio. Puoi decidere tu il territorio. Un sogno, insomma. Cosa faresti?
Sceglierei i vitigni delle zone vulcaniche, sono i migliori suoli che abbiamo, basta pensare a vitigni del Vesuvio, di Roccamonfina, dei Colli Euganei, ritornerei ai vini antichi piantati dai Romani.
Domanda provocatoria n. 2
Oggi la moda è la produzione di vini biodinamici. Cosa pensi di questa pratica?
La “biodinamica” è più simile ad una pratica empirica che una tecnica agronomica. Spesso la si confonde con l’agricoltura biologica.
Ultimissima. Qual è il vino che preferisci?
L’aglianico è il mio preferito quando è coltivato su suoli vulcanici: cambia completamente l’aroma ed è meno aspro.
Ultimissima dell’ultima: ma secondo te, esiste il Molise?
Direi che è una regione in via di estinzione, lo spopolamento sta svuotando dei paesi bellissimi, non so quanto il Molise resista.
Ecco, le solite profezie che si autoavverano.