Il professor Stefano Poni è stato Direttore del Dipartimento di Scienze delle Produzioni Vegetali Sostenibili dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e attualmente è Direttore del Master Internazionale VENIT.
Le sue attività di ricerca, che si concretizzano in circa 400 lavori pubblicati su riviste e libri di interesse nazionale ed internazionale, riguardano principalmente la fisiologia applicata e le tecniche colturali della vite.
Professor Poni, ci possiamo dare del tu?
Certamente, mi aiuta peraltro a rendere meno pesante il compimento dei miei 60 anni il prossimo 23 agosto.
Auguri in anticipo e mille di questi giorni!
La prima domanda è un classico delle mie interviste: come è nata la tua passione per la ricerca nella fisiologia della vite e nelle tecniche colturali che la riguardano?
Come spesso accade per gli eventi importante della vita, in maniera del tutto casuale. Frequentavo il secondo anno della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna e mi stavo recando a fare l’esame di Microbiologia Enologica. La docente, prof. ssa Guerzoni, che ricordo con grande piacere, oltre a darmi un bel voto, notò che ero nativo di Cesena. Le venne in mente di informarmi che, da lì a poco, la Cassa di Risparmio di Cesena avrebbe bandito una borsa di studio in viticoltura riservata a ragazzi nati in provincia di Forlì. Feci domanda e… eccoci qua.
La passione per la “fisiologia applicata” in vigneto non è altro che una conseguenza di quell’episodio rivelatosi così casuale e così decisivo.
È noto che la qualità del suolo influenza la qualità del vino. Uno dei tuoi ultimi lavori, pubblicato su Catena, riguarda le interazioni suolo-vite. Da quanto ho capito, il tuo gruppo ha messo a punto un metodo per la valutazione delle caratteristiche del suolo che, sulla base di un approccio dinamico, consente di fare delle correzioni continue al suolo stesso per ottenere il prodotto desiderato. Ce ne puoi parlare? Su quali cultivar questo sistema è ottimale e su quali invece funziona meno?
Il lavoro, da poco pubblicato sull’autorevole rivista CATENA , è il condensato di un intero progetto LIFE, denominato SOIL4WINE, conclusosi a dicembre 2019 e dedicato al ruolo che il terreno svolge nell’ecosistema vigneto.
Preciso che i progetti LIFE non sono, per loro natura, progetti di ricerca [n.d.r. come, per esempio i progetti a gestione diretta che fanno parte dei Programmi Quadro] bensì progetti dimostrativi in cui alcuni risultati già acclarati vengono trasferiti in aree in cui quelle tecniche non sono ancora adottate.
Con SOIL4WINE ci siamo posti il problema di proporre e validare, per l’areale dei Colli Piacentini e Parmensi, un protocollo metodologico che consenta al viticoltore di:
- capire se, in azienda, il suolo su cui crescono le viti presenta oggettivi fattori limitanti che compromettono resa e qualità delle uve;
- una volta diagnosticati tali fattori, lo strumento propone varie soluzioni di “mitigazione” che sostituiscono una gestione del suolo non appropriata: ad esempio, una lavorazione totale, che spesso favorisce l’erosione e degrada rapidamente la struttura del suolo, può essere, in parte o totalmente, sostituita da inerbimenti controllati e temporanei;
- infine, il protocollo prevede la verifica dell’efficacia delle azioni di mitigazione che sono state adottate.
Lo spirito che ci ha guidato nel proporre questo progetto LIFE, finanziato dalla EU, è anche alimentato dalla constatazione che, ancora oggi, in vigneto, il suolo è spesso percepito come fratello “minore” rispetto a tutto ciò che riguarda la chioma, ovvero la parte aerea che, a differenza delle radici, ha anche il non trascurabile vantaggio di essere visibile e, quindi, valutabile.
Il protocollo proposto si astrae davvero dalla tipologia di vitigno; in presenza di minacce del suolo gravi e non adeguatamente affrontate, qualsiasi cultivar si comporta in modo deludente.
Ah, interessante questa omologazione. Passiamo ad un altro dei tuoi temi di ricerca.
Perché la doppia raccolta del Pinot Noir – come scrivi tu – forse rientra tra le leggende?
Avrei necessità ancora di un paio di anni prima di potere dire se la tecnica proposta rimarrà “leggenda” o potrà invece trasformarsi, come in realtà credo, in un’ulteriore carta che il viticoltore potrà giocare. Sono quelle cose che nascono per caso sull’onda delle “4 chiacchiere in libertà” ma sulla quale stiamo lavorando con impegno.
L’idea è, per certi aspetti, semplice ma ne deve essere compresa a fondo la filosofia.
In primo luogo, quando si parla di “doppia produzione” nell’arco della stessa annata – in un contesto di viticoltura da vino – occorre sgombrare il campo da un equivoco: non ci riferiamo di certo ad una seconda produzione portata sulle femminelle, una tecnica estremamente poco controllabile e senza solidi presupposti fisiologici.
Il principio è totalmente diverso: con l’allungarsi progressivo della stagione vegetativa – favorito anche dal global warming – stiamo ipotizzando, inizialmente su vitigni precoci, la possibilità di sbloccare a metà estate la gemma dormiente che, solitamente, si sarebbe schiusa solo l’anno dopo.
Tale sblocco consente di avere una sorta di “secondo ciclo vegetativo” che parte più o meno a fine giugno e, presumibilmente, porta ad una seconda vendemmia tardiva o molto tardiva che avviene in condizioni climatiche decisamente favorevoli all’evoluzione, ad esempio, dei profumi e al mantenimento di un’acidità più sostenuta.
Vorrei prevenire la domanda che sorge spontanea nei lettori a questo punto:
“ma se faccio così, come riesco a produrre l’anno successivo avendo già “usato” le gemme dormienti?”
Ogni tecnica va studiata nei minimi dettagli sotto il profilo fisiologico: la tecnica, consigliata su forme di allevamento a sperone corto, sfrutta la schiusura delle prime due gemme dormiente apicali presenti sul germoglio cimato, a giugno, a 6-8 nodi: in tale modo le altre gemme basali rimangono “dormienti” e assicurano una regolare produzione per la stagione seguente.
I primissimi risultati ottenuti su Pinot noir consigliano di continuare ad investire in questa “pazza idea”.
Allora ti strappo la promessa di risentirci qui per sapere come è andata.
So che sei uno studioso dei cambiamenti climatici. Come pensi possano influenzare la coltivazione della vite in Italia ed Europa nei prossimi anni? Ma soprattutto, quali sono le possibili – e varie – soluzioni?
Domanda di amplissimo respiro richiederebbe una risposta molto articolata. Siamo oramai certi che “cambio climatico” significa, oltre a molto altro, anche l’aumento delle sommatorie termiche, aumento della frequenza di fenomeni estremi, comparsa di organismi nocivi prima sconosciuti.
La vite è specie duttile ed adattabile, ma entro certi limiti.
Prendiamo due casi opposti, ovvero un vitigno bianco destinato a vinificazione frizzante/spumante e un vitigno rosso destinato ad una vinificazione per un prodotto “importante” e duraturo nel tempo.
Nel primo caso, il global warming è un nemico da cui guardarsi poiché per mantenere le caratteristiche organolettiche necessarie (in particolare una buona acidità) si è costretti a vendemmie sempre più precoci che non sempre consentono anche la piena espressione aromatica.
Prendiamo ora il secondo caso, il vitigno a bacca rossa.
Le alte temperature da un lato favoriscono – anche purtroppo attraverso fenomeni di parziale disidratazione dell’acino – un accumulo molto rapido degli zuccheri; dall’altro, tale concentrazione non è sovente accompagnata da un corrispondente accumulo di sostanze polifenoliche e, in particolare, di antociani [n.d.r. ricordiamo che gli antociani sono le sostanze che donano colore al vino rosso].
Per questi ultimi è, ad esempio, ampiamente acclarato che temperature eccedenti i 35 °C tendono a favorirne la degradazione a composti non colorati.
Sì, ho visto anche la tua conferenza che presentava gli insights del progetto INNOVINE che si trova su youtube proprio su questo tema.
Ecco, a fronte di tale evenienze, occorre impegnarsi nel concepire tecniche di “adattamento” che – in modo contro-intuitivo – ove necessario possano rallentare o comunque regolarizzare il ritmo di maturazione spostandolo in avanti. Fa certamente effetto pensare che spesso siamo oggi chiamati a intervenire con tecniche che mirano a “rallentare” la maturazione piuttosto che a promuoverla.
In merito a tali tecniche, il nostro gruppo di ricerca ha contribuito a verificare l’efficacia di potature invernali particolarmente tardive, l’utilizzo di una defogliazione tardiva “alta” – quindi lontano dalla fascia dei grappoli – e applicazioni di caolino.
Alla luce di tutto quello che hai detto qui sopra, qual è il significato di “sostenibilità” per te e quanto i precetti della Brundtland possono essere ancora attuali nell’anno 2020?
Come non condividere lo statement della Brundtland che recita “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Semmai, personalmente, vedo ancora posizioni contrapposte in merito ad una definizione condivisa di sostenibilità e, soprattutto, non è ancora chiaro in che misura le tre anime della sostenibilità (economica, ambientale e sociale) possano e debbano sovrapporsi.
Forse, più che alla sovrapposizione, sarebbe più strategico pensare al concetto di cooperazione.
Da imprenditore viticolo, mi sentirei “sostenibile” ove riuscissi, nel mio vigneto, “a produrre la massima quantità di uva alla qualità desiderata e al minimo dei costi di produzione”.
Temo, però, che non basti.
A quanto appena delineato occorre anche aggiungere “nel pieno rispetto dell’ambiente e avendo massima cura della sua salvaguardia”.
La sfida di “produrre di più con meno risorse” certamente riguarda anche la viticoltura ma con un distinguo importante: nella coltura della vite, produrre più uva è un precetto valido fino al punto in cui il livello produttivo non supera quel carico di rottura oltre il quale la qualità non è più quella ricercata. Il conciliare sostenibilità economica ed ambientale è, in viticoltura, sempre di più il risultato di scelta di terroir, materiale genetico di prim’ordine, tecnica colturale di avanguardia e sapiente innovazione tecnologica.
Tradizione ed innovazione sono due termini che sembrano in contraddizione tra loro. In che modo essi possono essere considerati complementari nella pratica viti-vinicola?
Sono talmente convinto che “tradizione e innovazione” siano due pilastri irrinunciabili della moderna viticoltura che ho dedicato agli stessi anche il nome del nostro Master Internazionale VENIT (Viticulture and Enology: Tradition meets Innovation) giunto quest’anno alla sesta edizione, tenuto in inglese e frequentato per il 90% da studenti stranieri.
Ritengo che sarebbe semplicemente folle per la nostra viticoltura rinunciare alla tradizione.
Pur non amando il termine terroir, non dimentichiamo mai che siamo il Paese viticolo con la più ampia piattaforma varietale e di condizioni edafiche e climatiche del mondo. Questo giustifica il legame così profondo tra viticoltura e territorio, storia, cultura e la possibilità di commercializzare prodotti che per varietà, caratteristiche gustative, note particolari non hanno eguali. Un patrimonio da difendere e da non scalfire.
Al tempo stesso, pensare di potersi affidare oggi alla sola “tradizione” pare velleitario. Perché, invece, non mantenere quella tradizione andando ad agire su alcuni parametri di efficienza del vigneto?
Sto pensando, per esempio ad alcuni principi che tendano ad un maggiore sfruttamento delle risorse naturali a costo zero (tra tutte la luce!) cercando, nel contempo, di ridurre il ricorso a costosi e inquinanti input esterni.
In questo contesto, un ruolo importante sarà giocato anche dalle dirompenti tecniche di viticoltura di precisione e, più in generale, di digitalizzazione che, usando un passo felpato, non potranno che rivelarsi strumenti preziosi per un aumento della competitività del settore.
Siamo quasi alla fine.
Domanda provocatoria numero 1: se ti dessero un fondo illimitato, senza alcun vincolo né di tematica né di rendicontazione, e nemmeno di territorialità, cosa faresti?
Nessuna velleità imprenditoriale personale. Vengo da un’adorata famiglia romagnola di tradizione artigiana e non ho mai coltivato vite o vinificato uva. Se però avessi le risorse in questione ci terrei a strutturare una sorta di “vigneto palestra” nel quale concentrare una serie di modelli e di tecniche viticole moderne da mettere a disposizione, con finalità didattiche e dimostrative, in primis per gli studenti ma anche per tutte le persone che, o con finalità amatoriale o con intenti di nuova imprenditoria, si vogliono avvicinare al mondo della viti-vinicoltura.
Domanda provocatoria numero 2: una delle mode del momento è la viticoltura biodinamica. Cosa ne pensi?
Non c’è provocazione nella domanda poiché, nella fattispecie, mi sento di dare una risposta in un certo senso obbligata che non può prescindere dal metodo scientifico, così prepotentemente tornato al centro dell’attenzione in era Covid -19. Conoscendo un po’ la fisiologia della vite, mi pare di poter dire che i principi enunciati da Steiner difficilmente possano incidere su comportamento ed efficienza del vigneto ma… è possibile riuscire a dare certezza scientifica che metta pace tra le varie fazioni? possiamo trovare un modo non ambiguo che convinca entrambe le parti?
Vedo solo una soluzione al problema che rifugge, ovviamente, da ideologie o luoghi comuni: si organizzi un confronto, come minimo quinquennale, tra viticoltura tradizionale, integrata, biologica e biodinamica con tutti i crismi della corretta impostazione statistica. Si raccolgano i dati e si produca una valutazione oggettiva dei risultati.
A volte, quando si imposta una prova comparando varie tesi, la cosiddetta “non significatività” dei trattamenti costituisce un risultato comunque probante ed autorevole…
Ottimo. Infine: qual è il tuo vino preferito?
Facile per un romagnolo purosangue: Albana di Romagna secca.