Qualche approfondimento sui meccanismi di formazione di alcune sostanze aromatiche.
Vi siete mai chiesti da dove arriva quello strano “sentore” che percepite quando assaggiate un bicchiere di Sauvignon Blanc? Uno strano “odore” di pipì di gatto. Alcuni cercano di nobilitare il sentore riferendosi all’odore delle siepi di bosso ma di fatto si parla tutti della stessa cosa.
E poi questo odore si trasforma, o è accompagnato da, un profumo fruttato di frutto della passione e pompelmo. Incredibile, eh?
E allora partiamo dal vitigno.
Il Sauvignon Blanc, per gli amici SB, contrariamente a quanto si legge sovente in giro, è originario sì della Francia ma non della zona di Bordeaux, bensì della Valle della Loira dove si ritrova la sua prima attestazione con il sinonimo di Fiers. Già il fatto che si chiami Sauvignon la dice lunga sulle origini genetiche del vitigno.
Il “documento” che lo riporta è il Gargantua di Rabelais (a. 1534):
Car notez que cert viande celeste manger a desieuner raisin auec fouace fraische; mesmement des pineaulx, del fiers, des muscadeaulx, de la bicane et des foyrars […]
La viticoltura in questa valle può essere fatta risalire ai Romani – o forse anche prima con i Celti, ma non se ne ha certezza – che pare abbiano per primi portato delle barbatelle.
Stiamo parlando della parte più interna del fiume, verso est, che offre un clima di tipo continentale con escursioni piuttosto importanti tra estate ed inverno che mettono a dura prova, a volte, la resistenza e pure la sopravvivenza delle piante.
La zona è suddivisa in quattro aree e questa orientale comprende la parte più importante con il Sancerre e il Pouilly-sur-Loire, con l’AOC Pouilly-Fumé, dove domina incontrastato – anche se con alterne vicende – il nostro SB, e da cui nascono i vini bianchi più importanti della regione: delicati quelli di Sancerre, rotondi invece i Pouilly-Fumé.
Il suolo di questa zona è caratterizzato da terreni a base di argilla calcarea mista a gesso e silicati. A mano a mano che si segue il corso del fiume – e ci si dirige verso la foce – si ritrovano, rispettivamente, gesso e tufo, pietra e ardesia e, infine, argille e sabbia.
In Italia ha trovato il suo luogo di elezione soprattutto in alto Adige dove le altitudini e la tipologia di suolo così variegata ha permesso a questa varietà di esprimersi molto bene.
La prima attestazione in questa zona dell’Italia si ha intorno al 1880 quando il famoso istituto di enologia di S. Michele all’Adige – che in quegli anni ancora di governo austro-ungarico non faceva parte dell’Italia – che dettava regole e impartiva suggerimenti sull’enologia dell’impero, incentivava l’allevamento del SB proprio nell’area altoatesina.
Nel mondo il SB è ormai un vitigno internazionale: famosissimi sono, oltre i già citati SB francesi, i SB della Napa Valley, del Sudafrica ma, soprattutto, gli australiani e quelli della Nuova Zelanda. Ciascuna di queste aree ha delle caratteristiche sue specifiche e, in più, i vini provenienti dalla varie aree del mondo mettono in risalto ora l’una ora l’altra componente aromatica di questo vitigno. Se alcuni preferiscono le note verdi erbacee – o anche di fagiolino o erba cotta – altri tendono ad attenuare queste note a favore di quelle più fruttose e appetibili. Ciascuna scelta, considerato che ciascun vino è il risultato di un obiettivo enologico, ha le sue conseguenze nelle strategie di gestione della vigna e, poi, in cantina.
Una raccolta precoce favorirà i sentori erbacei, una in fase di maturazione più avanzata tenderà ad esaltare le note fruttate magari più piacevoli ma, forse, più grasse. L’equilibrio tra tutte e due sarà magari la conseguenza di raccolte multiple in varie fasi della maturazione; di tipologia di raccolta (manuale o meccanica) e di decisioni relative a passaggi in legno e fermentazioni malolattiche effettuate anche parzialmente.
Il SB, quindi, più di molti altri vigneti risente grandemente del terroir e della mano dell’uomo nella sua gestione.
E ora, veniamo al dunque degli aromi che sono la variabile più ampia da gestire in un vigneto di SB.
Appena spremuta l’uva, con il mosto sotto il naso, si sentono sempre degli odori erbacei, indipendentemente dalla varietà che si sta spremendo. Sì, anche con i Moscati e le Malvasie. Anche con il Traminer Aromatico. Sempre. Questo deriva dal fatto che il danneggiamento/rottura della buccia degli acini, così come accade con l’erba tagliata di fresco o con l’insalata che state preparando per queste afose giornate estive, rilasciano sempre le medesime molecole.
Con il SB funziona che dopo il profumo erbaceo, e con l’odore di bosso, in determinate condizioni si formano meravigliosi profumi di pompelmo e frutto della passione.
Ma quali sono le molecole che vengono rilasciate durante la pigiatura?
Bisogna rifarsi alla natura e al comportamento degli aromi (come noi invece li percepiamo sarà tema di un post che prima o poi scriverò): se ci fate caso, non tutti gli acini una volta avvicinati al naso emettono profumi di frutta o di altra specie.
Un acino di Moscato avrà un certo profumo, un acino di SB non avrà proprio alcun odore.
La prima volta che questo fenomeno fu segnalato – a proposito del Sauvignon Blanc – fu nel 1980 da parte di Emile Peynaud, famosissimo enologo e grande ricercatore della zona di Bordeaux, il quale definì questo evento come “ritorno aromatico”.
In che cosa consiste questo ritorno, secondo Peynaud?
Prese un acino di SB, lo annusò e non percepì nulla; poi lo mise in bocca e lo masticò lungamente. Infine, come sanno fare i bravi degustatori, deglutì ma fece in modo col respiro di far uscire l’aria impregnata degli aromi che si erano sprigionati durante la masticazione verso il naso. E così scoprì che le molecole responsabili di questo profumo sono racchiuse nell’uva e tenute “ferme” con legami che vengono “spezzati” grazie all’azione di alcuni enzimi che abbiamo nella saliva.
Ma cosa sono queste molecole che si liberano grazie all’azione degli enzimi che abbiamo in bocca (oppure, anche grazie all’azione dei lieviti durante la fermentazione alcolica?)
Tutto parte dai cosiddetti “precursori”: le molecole descritte qui sopra, che hanno un potenziale aromatico che liberano solo sotto determinate circostanze, sono definite, appunto “precursori”. Sono molecole che come uno scrigno (questa immagine è del professor Luigi Moio che a lungo si è occupato di questo argomento) preservano gli aromi fino al momento in cui, spezzando il famoso legame alla molecola di zucchero, si liberano sprigionando l’odore che trattenevano.
Ma perché una pianta dovrebbe dotarsi di una cosa così strana come questa delle molecole “zavorrate”? questo accade perché queste molecole si sciolgono facilmente in acqua quindi, con questa caratteristica, non solo sono facilmente trasportabili di qua e di là a seconda delle necessità della pianta ma, pure, sono facilmente immagazzinabili in attesa che tornino utili alla pianta medesima.
Quindi, per usare una metafora facile, la pianta fa magazzino come le formiche per i casi di necessità e si prepara sia a difendersi sia anche a richiamare sessualmente l’altra pianta al momento opportuno.
Ma quali sono le molecole di cui sopra?
Essenzialmente sono tre, hanno nomi complicati e si ritrovano anche in altri vitigni, oltre che nel nostro SB. Tipo, per esempio, nel Chenin Blanc e nel Colombard. Ma anche in altri vitigni altrettanto famosi.
Questo giusto per dire che il SB non è un caso eccezionale, se non nelle concentrazioni elevate che ne fanno un caso ideale da studiare.
Non spaventatevi per i nomi o per le strutture, contano fino ad un certo punto ai fini della comprensione generale del meccanismo.
I nomi sono:
A. 4-MMP (bosso, frutto della passione)
B. 3-HM (pompelmo, frutto della passione, citrino in generale)
C. 3-MHA (frutto della passione, bosso)
I primi due derivano da “precursori” non aromatici (certo che sono non aromatici, lo abbiamo visto prima: le molecole “odorose” sono imprigionate e non possono svolazzare) presenti nel mosto e, grazie all’attività dei lieviti, vengono liberati nella loro forma volatile. Cosa vuol dire: i lieviti spezzano il legame che queste molecole hanno con il “peso” che le tratteneva, e in questo modo sono libere di disperdersi.
Il terzo (vabbè è un estere acetato ma a noi non cambia saperlo) si forma a partire dal secondo, sempre grazie all’azione dei lieviti ed è quello che ad alte concentrazioni maggiormente influisce sulla percezione dell’odore di pipì di gatto.
Queste molecole fanno parte della famiglia dei tioli e sono molto importanti per alcuni vini come il SB, ma anche per il Cabernet Franc e il Cabernet Sauvignon (che, guarda caso, è figlio dei primi due).
In genere, quando si parla di caratteristiche aromatiche, si può dire che ci sono vini terpenici (quelli che sono caratterizzati essenzialmente da note di fiori e frutta) e quelli tiolici – come il nostro SB – che si basano essenzialmente su note sulfuree di vario tipo.
I tioli furono identificati per la prima volta nel 1993 quando una ricerca più approfondita delle sostanze presenti nella polpa e nelle bucce degli acini, fece emergere la presenza di questo gruppo di molecole. Il gruppo di scienziati che fece la scoperta era capitanata da Philippe Darriet che, assieme al suo gruppo, aveva base presso la facoltà di enologia dell’università di Bordeaux. Gli scienziati scoprirono che gli odori tipici del SB venivano resi volatili durante la fermentazione alcolica e grazie ad enzimi che intervenivano nel metabolismo dei lieviti.
I tioli sono quegli aromi della famiglia dei mercaptani che hanno essenzialmente i tre sentori di cui parlavamo all’inizio, bosso, pompelmo e frutto della passione.
Come vedete dalla figura qui sopra, ritroviamo i tioli che ci interessano: il 4-MMP soprattutto nella buccia, il 3-MH in particolare nella polpa.
La concentrazione di queste sostanze, inoltre, cambia a seconda delle zone di coltivazione del vitigno, come dicevamo sopra, senza contare ovviamente la differenza di gestione enologica e le pratiche di cantina.
Guardate qui, per esempio: i tre grafici mostrano le differenze quantitative di queste molecole nelle varie aree di allevamento del SB.
E’ vero che molti studi, anche molto qualificati, hanno stabilito che la concentrazione dei tioli nel mosto non è immediatamente correlata alla concentrazione dei precursori (e abbiamo visto quanto siano importanti poi nella composizione del bouquet aromatico del vino). Però ci sono altri studi, un po’ più recenti, che fanno un passo avanti e dimostrano che è possibile intervenire sul risultato finale con tecniche accorte di allevamento e, anche, di gestione del mosto in fase pre-fermentativa.
E’ emerso, infatti, che una raccolta meccanica dei grappoli di SB di fatto influenzava la presenza dei tioli nel mosto.
E non solo se ne sono accorti, ma anche sono riusciti a darne una spiegazione.
La prima molecola, il 3MH, può essere formata da un esanolo (che è un alcol a sei atomi di carbonio) e un esanale (che è una aldeide a sei atomi di carbonio) e che si trova in modo naturale nel succo di questa uva.
Questi due composti – che possono pure essere interconvertiti, ovvero danno luogo ad un processo chimico nel quale due cose si convertono l’una nell’altra – si formano quando alcuni acidi grassi polinsaturi (vuol dire che ci sono due o più doppi legami nella molecola) formati da catene di 18 atomi di carbonio vengono spezzati quando vengono rotte o danneggiate le membrane vegetali, come per esempio la buccia dell’acino .
In parole povere: io spezzo la buccia di un acino di uva nella fase di pigiatura e lo metto a contatto con lieviti per far partire le reazioni di fermentazione: in questo modo spezzo delle catene lunghe di atomi di carbonio. Questo danneggiamento fa “reagire” il grappolo come se si sentisse attaccato e così forma composti a sei atomi di carbonio (li abbiamo visti prima, l’esanale e l’esanolo) che hanno proprietà anti-lieviti e anti-fungine.
Il lievito, che a quel punto sta fermentando il succo degli acini, incontra questi composti tossici nel succo e a sua volta “contrattacca” consumandoli e legandoli ad altri composti che contengono zolfo come il glutatione e l’acido solfidrico (il famoso H₂S) in modo tale da rendere i composti di cui sopra non tossici e innocui per lui.
Attualmente, in base a questi processi che ho appena descritto, esiste un brevetto americano per l’iniezione di bolle di acido solfidrico prima dell’inoculazione dei lieviti nel mosto oppure anche durante la fermentazione – e dunque dopo l’immissione dei lieviti – per incentivare la presenza di tioli, soprattutto quelli fruttati che risultano maggiormente appetibili al gusto del consumatore.
Si attendono futuri sviluppi nel campo di questa ricerca davvero interessante.
- L. Moio, Il respiro del vino, Milano, Mondadori, 2016
- H. Johnson, Il vino. Storia, tradizioni, cultura, Roma, Orme Editori Srl, 2012
- J. Robinson, J. Harding, J. Vouillamoz, Wine Grapes, New York, Ecco Press, 2012
- N. Lloyd, Varietal Thiols and Green characters, The Australian wine research institute
- Michael J. Harsch, Frank Benkwitz, Andy Frost, Benoît Colonna-Ceccaldi, Richard Gardner and Jean-Michel Salmon. 2013. New precursor of 3-Mercaptohexan-1-ol in grape juice: thiol-forming potential and kinetics during early stages of must fermentation. J. Agric. Food Chem. 61, 3703-3713
- Thomas Allen, Mandy Herbst-Johnstone, Melanie Girault, Paul Butler, Gerard Logan, Sara Jouanneau, Laura Nicolau and Paul A. Kilmartin. 2011. Influencing of grape harvesting steps on varietal thiol aromas in Sauvignon blanc wines. J. Agric. Food Chem. 59, 10641-10650
- United States Patent Application Dorsey et al. Pub. No. US 2014/0234481 A1. Pub. Date: Aug. 21, 2014