Gli appassionati delle bollicine venete lo conoscono e lo apprezzano come il meglio della produzione del prosecco.
Il cosiddetto pentagono d’oro, di soli 107 ettari vitati, si colloca al culmine della piramide della qualità di quella vasta area interregionale e protetta da varie DOC e DOCG conosciuta in tutto il mondo con il nome di Prosecco.
Ci troviamo nel cuore più puro della denominazione Prosecco Superiore Conegliano Valdobbiadene DOCG, un minuscolo fazzoletto di terra che si può ammirare dalla piccola ma famosa strada pedemontana che passa da S. Pietro di Barbozza verso S. Stefano.
Prima di parlare dell’etimologia del nome, raccontiamo qualche dettaglio sulla sua origine geologica: non è una minuzia insignificante, ci aiuterà a tracciare il senso del toponimo alla fine del nostro percorso.
Tra i 20 e i 7 milioni di anni fa qui c’era il mare. Che poi, però, si ritirò perché i suoi fondali si sollevarono lasciando scoperti suoli decisamente eterogenei tra loro, al punto che è possibile attualmente distinguere 15 sottozone con caratteristiche peculiari dissimili tra loro ma omogenee per singola zona, per costituzione, per profondità e per complessità .
Le componenti dei terreni di questa area si rispecchiano poi nei vini che qui si producono in un modo così cristallino che le evidenze scientifiche in merito sono un ottimo marcatore per confermare la definizione di cru e, più in generale, la stretta correlazione pedoclima-flavour.
La zona a nord dei 107 ettari, che gli anziani del luogo chiamano Crode, si colloca tra i 320 e i 360 m s.l.m. ed è il perfetto risultato del lavoro del mare e della presenza della montagna: qui infatti si trovano suoli misti di arenaria di origine marina e calcareniti di origine rocciosa.
Non dimentichiamo che le Dolomiti non sono così distanti da qui e il calcare è una delle cifre distintive, seppur in percentuali completamente differenti, di entrambe le zone.
Il frutto di questo incontro è un suolo fertile e perfetto per l’allevamento della Glera.
Come ogni buon terroir che si rispetti, anche qui l’uomo ci ha messo del suo. Che su queste colline si coltivasse la vite da tempo immemore si rileva da molti documenti antichi che riportano come ci fossero piante di vite maritate a frassini, salici e aceri che ancor oggi attestano questa antichissima pratica, qui assai diffusa.
Anche le dichiaraizioni dei più anziani del luogo, inoltre, ancor oggi riferiscono della consapevolezza di quanto questa manciata di ettari possedesse il tocco della grazia, dal momento che le uve che provenivano da queste vigne riuscivano sempre a spuntare sui mercati un prezzo superiore rispetto a tutte le altre colline limitrofe.
Ad ulteriore conferma dell’ottima nomea di questa collina riportiamo, infine, uno stralcio dell’Inchiesta Agraria Jacini, un lavoro commissionato nel 1882 dal Senato del Regno d’Italia finalizzato alla valutazione dello stato dell’agricoltura:
[…] di un piccolo territorio valdobbiadenese posto tra Santo Stefano e San Pietro di Barbozza che produce un vino bianco che proviene da colline esposte al sole e di terreno cretaceo, di ottima qualità […] il Cartizze nel distretto di Valdobbiadene.
Per quel che riguarda il toponimo, le fonti purtroppo non ci aiutano moltissimo.
I riferimenti sono scarsi e non facilissimi da reperire negli archivi.
Facendoci aiutare però dai ricercatori del CREA, possiamo alla fine individuare tre possibili radici semantiche.
La prima spiegazione si rifà al nome dei graticci su cui si adagiavano i grappoli per l’appassimento delle uve, il cosiddetto Gardiz.
Qui i vini passiti sono una tradizione estremamente diffusa e rinomata: l’uva appassita, ormai dolcissima e intensa dopo la perdita di una considerevole percenutale di acqua grazie all’esposizione all’aria su graticci, veniva vinificata durante la settimana santa – da qui il nome di Vin Santo – per uso familiare.
Peccato però che il graticcio compare in questo territorio solo verso la metà del Cinquecento grazie alla diffusione in zona della bachicoltura che, per l’allevamento dei suoi bachi da seta, aveva bisogno di letti di cannelle.
Ma la denominazione Cartizze è rilevata già dal Trecento: quindi, questa spiegazione non è soddisfacente.
La seconda proposta sull’origine del Cartizze è stata suggerita dallo storico Bruno Brunoro che per la sua interpretazione fa riferimento ad una delle numerosissime piante che si trovano in quella zona accanto alle viti: il carduus o cardo volgare, un fiore spinoso abbondantissimo sulle erte colline del Prosecco.
La terza, infine, soluzione del dilemma viene proposta da uno studioso di medievalistica, Giovanni Tozzato, che nelle sue ricerche d’archivio è riuscito a far riemergere dalle nebbie del tempo la primissima attestazione del toponimo “Caurige“.
Il documento risale al 1362 quando il notaio Bortolomeo da Bigolino – minuscolo paesino della denominazione – redige un atto di compravendita di alcune terre che insistono sul territorio da cui lui stesso proviene:
[…] tra cui una pezza di terra aratoria e vidigata di circa mezzo campo in luogo detto “Caurige”
Notate alcuni interessantissimi dettagli.
Quel vidigata significa vitata. Già nel Trecento qui era coltivata la vite, lo sapevamo ma questo lo comprova vieppiù. Ed erano, con tutta probabilità , le famose viti maritate di cui accennavamo prima.
Tra le piante viene inoltre praticata l’agricoltura: un ibrido abbastanza diffuso per cui non sono possibili sprechi di suolo e tutto concorre al sostentamento.
Mezzo campo come unità di misura si rifà alle antiche misurazioni utilizzate durante il periodo della Serenissima Repubblica di Venezia quando ciascuna “provincia” misurava le distanze agrarie secondo un suo metro. Il campo trevisano corrisponde a circa 5.205 metri quadrati, ossia poco più di mezzo ettaro.
Scorriamo la ruota del tempo e arrivamo al 1408, anno in cui viene redatto un altro atto notarile per il passaggio di proprietà di un altro appezzamento dalle parti di Saccol (nella piantina del quadrilatero pubblicata qui sopra lo si trova a sud ovest, appena fuori dell’area del Cartizze).
Ebbene, uno di questi campi si trova proprio a ridosso della nostra collina e viene identificato come confinante con le “acqua de Carticiis“, un piccolo rio ancor oggi presente e attivo.
È in questo modo che finalmente abbiamo l’esatta ubicazione della nostra collina del Cartizze: un’area delimitata dal corso di un piccolo torrente che nasce nella frazione attualmente chiamata Case Bisol e che tocca sulla dorsale l’attuale via Cartizze. Via che, a sua volta, ci riporta a quel 1362 quando Caurige era la strada sterrata percorsa dai carri.
Dunque Caurige e Carticiis sono legati da un comune denominatore “campestre” che identificava per gli abitanti della zona il costone delle Bastie, attraversato da vari sentieri non agevoli ma utili per il passaggio dei carri da lavoro nei campi.
Chi ha guidato come me su quelle strettissime e davvero ripide stradine riconosce immediatamente la loro origine di antico sentiero una volta sterrato.
In seguito, con la risistemazione originata da censimenti vari e ridenominazioni, tutta la collina assunse il nome di Cartizze.
A riprova, un documento catastale del 1542 in cui il conte Pola – nobile trevigiano – risulta essere proprietario di 40 campi in terra di “Gardizze“.
E finalmente nel 1595 Abraham Ortelius da Anversa, notissimo cartografo, pubblica una delle sue edizioni del Theatrum Orbis Terrarum – di cui già avevamo parlato nel nostro articolo sull’origine del Prosecco – in cui per la prima volta include anche questa mappa presa da quella di Giacomo Gastaldi del 1567 e dal manoscritto di Giovanni Pinandello.
Nella mappa di Ortelius, fondamentale per gli studi relativi al Prosecco e al Cartizze, per la prima volta compare a chiare lettere il toponimo Cartice, come si può vedere dal dettaglio presente nella mappa, correttamente inserito vicino a Bigolino e Santo Stefano.
Nel 1709 la famiglia Pola ancora possiede, secondo le liste catastali dell’epoca, terreni in questa zona e il toponimo nei documenti si trasforma in Gardizze per la spinta all’evoluzione linguistica che premeva per l’italianizzazione dei nomi o a causa di alcuni errori degli agrimensori.
In qualsiasi modo sia andata, il nome evolve e si avvicina al presente.
Il Cartizze si assesterà definitivamente con la rilevazione catastale napoleonica che verrà , infine, confermata anche dai rilievi del catasto austriaco, che ivi era succeduto ai francesi, nel 1847.
Piccola postilla sull’opera di Ortelius per gli appassionati di cartografia
Il Theatrum Orbis Terrarum viene considerato a buona ragione il primo vero atlante moderno. L’opera fu pubblicata in 7 lingue e 36 edizioni. Per quest’opera, il famoso cartografo ottenne un privilegio, una sorta di diritto d’autore che impediva agli altri cartografi di pubblicare i propri lavori. Il Theatrum è una delle opere più avanzate del tempo in fatto di cartografia e rilevamenti geografici: nel volume Ortelius riunì 147 spettacolari tavole incise e colorate che riproducono quanto più fedelmente si poteva all’epoca il mondo allora conosciuto.
Ortelius fu anche il primo a citare le fonti delle sue tavole, riconoscendo il diritto di nome a chi aveva prodotto quei meravigliosi capolavori, ponendo nel Thatrum un catalogus authorum.
Nel 2016 una delle edizioni del Theatrum fu protagonista di un clamoroso furto avvenuto a Grosseto. L’opera, custodita nella cassaforte della biblioteca Chelliana della città toscana, un giorno sparì improvvisamente senza che nessuno se ne accorgesse. La cassaforte, protetta da una chiusura a due chiavi, fu trovata integra ma quando il responsabile del fondo antico della biblioteca tolse l’allarme e aprì la cassaforte per mostrare il volume ad alcune stagiste, il prezioso volume non era più al suo posto.
Valore dell’opera: 350.000 euro.
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