Nelle prime fasi della civiltà romana, stiamo parlando del periodo dei prisci Latini all’incirca VIII secolo a.C., i popoli che si erano fermati sulle alture che dominavano la campagna laziale erano essenzialmente vegetariani, con una dieta assai povera a base di verdure, radici, e poco più.
Allevavano animali (le arcinote oche) ma ne mangiavano soprattutto le uova e raramente gli animali in sè, se non – più frequentemente – il pollame.
Mentre oche galline ed altri animali da cortile erano affidati esclusivamente alle donne, gli animali di taglia più grossa erano utilizzati per i lavori nei campi e solo nel V secolo fu introdotta la bufala.
Questi animali venivano sacrificati agli dei e solo nelle grandi occasioni come le feste in onore di divinità o grandi cerimonie i Latini erano usi mangiare carne che veniva o bollita o arrostita.
Anzi, molto spesso, per conservare la carne questa veniva salata costringendo quindi i Romani a cucinarla più volte per poterla rendere commestibile.
In queste prime fasi, per le offerte rituali si trova maggiormente citato il latte che veniva ritenuto una sorta di dono “materno” della natura all’uomo.
Solo in epoca successiva troviamo citato il vino nelle offerte.
E’ vero che il vino era conosciuto dai Romani: se ne trova attestazione fin dalle famose Dodici Tavole. Ma il suo uso era raro e più diffuso avvenne con l’espansione dei territori romani sia a sud, verso la Magna Grecia, sia verso nord dove vennero in contatto con i Galli cisalpini.
Mentre dai Galli i Romani acquisirono varie tecniche, tra cui quelle della salumeria, della conservazione della carne e notizie sulla fabbricazione della birra, oltre che l’arte della costruzione delle botti; dai Greci i Romani appresero molto, molto di più.
I Greci insegnarono ai Romani a vivere, diffusero una cultura raffinata e complessa, più cosmopolita e “ripulita”.
Uno dei segnali più significativi dell’influenza del Greci sui Romani – tra i tanti che sono stati seminati qui e lì in tutte le discipline – è l’Odusia di Livio Andronico. Questo autore è considerato unanimemente l’iniziatore della letteratura latina e, guarda caso, scelse come sua opera rappresentativa proprio la traduzione dal greco dell’Odissea omerica.
Tornando ai vini, i Romani pur conoscendo la coltivazione della vite – come si era detto qui sopra – introdussero molte delle varietà della Grecia riportandole in patria dalle loro scorribande nel Mediterraneo orientale.
Moltissimi dei vini che ancora oggi conosciamo hanno nel loro patrimonio genetico tracce di quella origine ellenica dovuta alle importazioni romane.
I Romani si appassionarono così tanto al vino che menzioni si ritrovano in moltissime opere di vari autori classici: da Columella a Marziale è una cascata di citazioni varie a ceppi e vini e costumi vari: dalla conservazione alla coltivazione e al consumo di vino, soprattutto durante feste e banchetti.
Una delle particolarità della conservazione del vino da parte dei Romani era l’utilizzo di acqua di mare.
Il sale, tra i Latini prima e i Romani poi, era molto importante. Nelle prime fasi della storia latina perché con una dieta così povera e fondamentalmente vegetale era di assoluta importanza riuscire ad assimilare anche del sale.
Secondo Tito Livio sarebbe stato il re Anco Marzio a creare presso Ostia le prime saline e il consumo di sale era elevatissimo: Catone racconta che la razione annuale per uno schiavo era di 8,75 litri.
Una enormità !
Oltre ad usare il sale per insaporire e per conservare la carne, i Romani lo usavano mescolato al vino per rallentare la sua deperibilità . Le dosi generalmente erano molto più a favore dell’acqua salata che del vino ed era considerato molto, molto sconveniente bere vino puro.
L’apprezzamento nei confronti del vino in epoca Romana fu così vasto che a Roma, ma anche nelle principali città della repubblica prima e dell’impero poi, furono costruiti non solo il forum vinarium, ossia il mercato del vino, ma anche un portus vinarius.
I Romani, insomma, avevano un porto apposito per il commercio del vino per approvvigionare la città con tutti i più raffinati vini sia dell’impero che delle zone confinanti. Porto e mercato erano presumibilmente ubicati nel quartiere Testaccio per essere vicini al Tevere.
Nel mercato vi era anche un funzionario, il rationalis vinorum (tabularius, ovvero funzionario addetto al controllo delle merci nei porti), che manteneva un registro dove si tenevano sotto controllo i vini di importazione. Il rationalis aveva il compito di riscuotere le imposte dai mercanti che facevano commercio da ogni parte dell’impero.
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