In principio era Tinia, dio etrusco, precursore di Zeus e Giove.
Già citando i favolosi Etruschi capiamo bene dove ci stiamo indirizzando. Tinia lasciò il trono a Giove, dio del tuono e padre di tutti gli dei, e legò il proprio nome ad uno dei più famosi (ok ,ok, lo so che qualcuno ha molto da ridire su questo, ma è soggettivo e poi comunque ci possiamo tornare sopra) vini italiani, conosciuto in tutto il mondo per la sua eleganza e ricchezza aromatica.
Quale sia questo vino lo diremo poi. Giova invece alla prosecuzione di questo post sapere che questo come molti altri rinomatissimi vini che vengono dalla Toscana hanno come vitigno principale il nostro sangiovese.
– Per i non addetti ai lavori, è incredibile la quantità e la qualità di vini che vengono prodotti grazie a queste uve –
Una cosa è assolutamente certa: Emilia Romagna e Toscana si contendono da vari decenni la paternità di questo vitigno e fino a poco tempo fa nessuno riusciva a dirimere l’annosa questione.
Perchè allora citare all’inizio gli dei?
Perchè alcune delle teorie relativa all’origine del vitigno si collegano proprio ai nomi: del vitigno, degli dei, dei santi e pure delle festività. Un tripudio di incroci da far impallidire (per quanto un incrocio abbia la capacità di impallidire, ovviamente) il seppure problematico e caoticissimo Shibuya.
Innanzitutto sangiovese = sanguis Jovis
Il sangue di Giove. Sangue per colore brillante rubino e intenso, per forza, per nobiltà delle origini.
E questa è una.
Oppure: sangiovannese a causa della sua tendenza a maturare precocemente (!!! non è esattamente così, queste fonti toscane sono poco affidabili, in verità) e a sovrapporsi alle festività del solstizio di giugno, festa che segna il passaggio all’estate. E forse è questo il motivo per cui alcuni si richiamano anche a Giano, il dio bifronte, protettore delle porte e dei cambiamenti e dei cicli vitali.
A questo punto è chiara l’assonanza tra Janus e Johannes che condividono non solo una vicinanza fonetica ma, anche e soprattutto, alcune tematiche legate al “passaggio”: stagionale e solstiziale il primo, religioso e cristiano il secondo.
E cosa dire, poi, del fatto che per gli antichi Romani, è vero che il dio del vino era Bacco, ma quello degli eventi atmosferici e dei cambi di stagione a cui sono legate le azioni in agricoltura era Giove. E difatti, proprio a lui sono dedicate la maggior parte delle feste goderecce e mangerecce connesse alla produzione del vino. In Aprile, le Vinalia Priora, durante le quali si assaggiava il vino nuovo; in Agosto la Vinalia Rustica, ovvero il 19 del mese estivo, occasione in cui veniva sacrificato un agnello per propiziare l’abbondanza della incipiente vendemmia.
Anche la parola giogo è stata presa in considerazione perché per alcuni potrebbe essere la forma di allevamento veronese che si ritrova in Emilia Romagna designata come “pergola romagnola”.
Ora, lasciando da parte l’etimologia e la disciplina delle parole, il quadro che si forma qui ha l’unico pregio di mettere molta confusione sotto il nostro cielo di bevitori: dal momento che nessuno era certo dell’origine precisa di questo vitigno ci si era rivolti alla nomenclatura e, per non smentirci mai, ai litigi tra Toscana ed Emilia che si contendevano la nascita del nostro, proclamandosi genitori del vitigno.
Del sangiovese si sente parlare per la prima volta nel 1590, con Giovan Vettorio Soderini che lo definisce “vitigno sugoso e pienissimo di vino” e poi giù nel Settecento, anche riprodotto in tele ancora conservate a Firenze per poi allargare anche la zona dove viene conosciuto in Corsica con il nome di Nielluccio e in Algeria col nome di Lakhdari.
Per fortuna nostra arriva finalmente la scienza che ci aiuta a dirimere la vexata quaestio. Dapprima si identifica una parentela con il Ciliegiolo, ma senza riuscire a capire bene chi avesse generato chi e, dopo varie ipotesi, in parte totalmente smentite in parte riemergenti anche se senza un vero robusto supporto scientifico, il centro di Vassal Montpellier (Vassal–Montpellier Grapevine Biological Resources Center) individua con tecniche genetiche il Sangiovese assieme al Moscato violetto come genitori del Ciliegiolo. La tesi viene successivamente confermata anche dal Centro per la Ricerca in Viticoltura di Conegliano, dove ci si occupa anche di genomica della vite e si mappano gli alberi genealogici dei vari vitigni.
E’ finita?
No. Perchè ulteriori studi scoprono che alcune cultivar meridionali, tra cui il Negrodolce pugliese, che corrisponde al Morellino del Valdarno, sono imparentate col nostro Sangiovese. Ma quel che è più sorprendente – o forse no, se si considera quale sia in termini di qualche millennio l’evoluzione della viticoltura nel mondo – è che altri genotipi meridionali, come il Frappato o il Gaglioppo, sono anche questi imparentati sempre con il vitigno toscano. Non sono casi isolati e non possono non tradire la necessità di riprendere in mano in modo un po’ più solido l’origine del vitigno che, a questo punto, è d’obbligo: non appartiene nè alla Toscana nè all’Emilia ma viene dal sud italiano da cui poi, come molti vitigni, è risalito lungo lo stivale adattandosi alle condizioni pedoclimatiche in cui veniva messo a dimora.
E guarda caso, sempre grazie ad un camuffamento basato sui nomi, in Toscana il “Calabrese” identifica proprio il Sangiovese.
E ora torniamo ai nostri inizi. Qual è il vino di cui si accennava all’inizio a proposito degli Etruschi, vino di nobilissime origini?
E’ il Tignanello della Tenuta Antinori, una delle cantine più antiche al mondo. Producono vino dal 1385 quando Giovanni di Piero degli Antinori viene ammesso a far parte dell’Arte Fiorentina dei Vivattieri il cui simbolo, guarda caso, è una coppa di vino.
Nella loro tenuta in Chianti – se non ci siete mai stati solo questa cantina merita tutto il viaggio fino a lì, non solo per gli assaggi dei vini che producono nella loro tenuta principale ma anche per l’edificio medesimo che è stato inserito, a ragione, nella prestigiosa lista delle più belle cantine al mondo. Una scenograficissima costruzione che ha sbancato quasi mezza collina per rifugiarsi nel sottosuolo delle terre toscane da cui emerge, sinuoso e discreto, con un’idea complessiva di eleganza, lusso e grazia davvero senza pari.
Per tornare al Sangiovese, di cui il Tignanello è composto per il classico 80% assieme a varietà non autoctone come il Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, la tradizione toscana era invece quello di vinificarlo con altre uve del territorio molto più diffuse e conosciute di questo e, curiosamente, anche bianche come il Trebbiano assieme ad altri vitigni come la Malvasia.
Ne veniva quindi un vino slavato e di poco pregio, non con la velleità di grandi tavole ma solo per una beva casalinga. Che poi, se pensiamo che il Sangiovese in giovinezza ha un bel colore rubino non scuro impenetrabile ma bello vivace, e che veniva mescolato alle bianche, ecco questo al giorno d’oggi lascia un po’ così, perplessi.
La storia, notissima, racconta che fu Bettino Ricasoli a riorganizzare e normare la vinificazione del Sangiovese al fine di alleggerire un poco le asprezze puntute di questa varietà, aggiungendo alla vinificazione parti di Canaiolo, altro vitigno rosso autoctono toscano. E sebbene ancora qualche volta si sia continuato ad usare uve bianche, questa di Ricasoli divenne la base ormai nota del famoso Chianti e del Nobile di Montepulciano.
Inoltre, per alleggerire ulteriormente i tannini, si pensò anche di far fare al vino un passaggio in legno – alla moda dei vini francesi – possibilmente barrique di quercia francese, ricercatissima ancor oggi.
Il Tignanello fu il primo vino toscano ad essere affinato in legno e ad aprire così l’Italia alla moderna enologia e al pensiero di un prodotto decisamente più raffinato e internazionale.
In questo tripudio di innovazioni e di cambiamenti è assolutamente da menzionare il fatto che il Sangiovese si presenta sotto varie tipologie, le cui più conosciute si rifanno alla dimensione degli acini: il Sangiovese Grosso e quello Piccolo. Fanno parte del primo gruppo il mitico Brunello, il Sangiovese romagnolo e il Nielluccio, per esempio; tra i vini di quello Piccolo troviamo invece il Sangiovese di Montalcino e il Morellino di Scansano. Questo ha un’importanza fondamentale a seconda del vino che si esamina e della zona in cui ci si trova. Ad esempio, il Brunello di Montalcino, per disciplinare, deve essere vinificato al 100% con uve Sangiovese; però, dal punto di vista delle caratteristiche olfattive ed organolettiche sembra quasi un vitigno completamente differente da quello che si trova un po’ più a nord verso Firenze, nella zona del cosiddetto Chianti Classico.
Questo dipende, moltissimo, dalla capacità del vitigno – ricordiamolo giunto dal sud – di adattarsi ai terreni ed ai climi dove l’uomo nei secoli lo ha piantato e lo ha fatto prosperare. Le terre vicino a Siena hanno delle specificità geologiche completamente diverse rispetto alla zona della Valdichiana (anche qui, ricordiamocelo, questo era proprio il territorio degli Etruschi). Qui nel nord regna il cosiddetto Macigno – ancora una volta troviamo parole che assumono importanza cruciale per la comprensione del fenomeno – che lì indica una pietra arenaria molto dura, al punto tale da realizzare con essa le macine dei mulini. Pietra dura che, in fasce, si alterna ad argille, arenarie e conglomerati che hanno un loro peso non indifferente nel donare al vino delle caratteristiche uniche ed irripetibili.
Il Sangiovese riuscì ad adattarsi a tutti questi climi e terreni e a dare il meglio in ciascuno di essi producendo capolavori di gusto e complessità rari.
Vale la pena, quindi, una brevissima parentesi in merito alla variabilità genetica dei vitigni (si parla di Sangiovese ma il discorso può essere ampliato e ri-applicato anche ad altre cultivar).
Tutto parte dalla modalità di riproduzione: all’inizio, certo, questa è di tipo sessuata con conseguente diffusione e rimescolamento del patrimonio genetico tra le varie piante. Ma dopo l’attribuzione del nome al vitigno, ecco, a quel punto non è più possibile riprodurre la pianta nel modo descritto ed è necessario passare alla riproduzione per via vegetativa. Questo consente ai viticoltori di mantenere il patrimonio genetico delle piante scelte migliorando, con i dovuti accorgimenti, tutte quelle caratteristiche migliorative che vengono esaltate dalle piante selezionate per i cloni. Sembra strano dirlo, ma in Toscana sono stati contati bel 125 cloni di Sangiovese.
Dove sta il punto? le differenze sono minime perché se andiamo a fare l’analisi del genoma questo appare assolutamente identico in tutti gli esemplari, ma nella vita della vite questo si traduce in comportamenti della pianta completamente differenti rispetto alla siccità, al calore, al colore, agli aromi, alle potenzialità e molto altro.
In più, se già questo non fosse sufficientemente complesso e complicato, si aggiunge anche l’epigenetica, ovvero “la trasmissione di tratti e comportamenti senza cambiamenti nella sequenza genica”.
La differenza tra le due – mutazione genetica ed una modifica epigenetica – sta nei tempi e nella durata. La prima è un processo lungo ed irreversibile “non stimolato dall’ambiente”; la seconda, invece, ” è veloce, reversibile e risponde direttamente all’ambiente in cui la pianta vive”.
Ecco perché, per parlare del Sangiovese, era molto importante la lunghissima digressione sulle sue origini che ha aperto il post. La pianta nasce al sud, in un territorio completamente diverso e con un clima decisamente più caldo e impervio. Portato verso nord nell’Italia centrale, con un clima decisamente più moderato e gentile, ha trascorso fuori dalla sua terra d’origine le varie fasi climatiche terrestri (ricordiamo, una tra tutte, la piccola glaciazione in epoca rinascimentale), si è modificato per adattarsi e ha dato origine alle varianti fenotipiche che meglio si erano adeguate ai vari ambienti pedoclimatici (vi ricordate?, avevamo parlato della grande differenza tra Montalcino nella zona sud e Chianti Classico al nord).
Sempre Sangiovese è, ma i biotipi del sud sono diversi da quelli del nord pur essendo tutti facenti parte della medesima famiglia del Sangiovese e, conseguentemente, condividendo tutti il medesimo patrimonio genetico.
Ma volete mettere l’enorme diversità – nel calice – di un Chianti Classico rispetto ad uno di Brunello di Montalcino?
Le principali caratteristiche vinicole del Sangiovese sono quelle di una maturazione lenta e di una vendemmia che tradizionalmente inizia verso gli ultimissimi giorni di settembre, caratteristica che magari toglie qualche punto di colore al vino (gli antociani, i pigmenti idrosolubili responsabili del colore rosso nel vino, tendono ad una curva discendente quando si entra nelle vendemmie tardive) ma, di contro, dona una ottima spalla acida e tannini a volte fin troppo puntuti ed aggressivi che vanno gestiti da mani esperte, soprattutto nelle annate fredde quando la percentuale zuccherina fatica a crescere nell’acino. Le annate calde, invece, riescono a far nascere vini epocali, di una potenza rara e di una longevità davvero uniche.
Il blend del Tignanello con vitigni internazionali ha una sua storia a parte che merita di essere raccontata assieme a quella dei supertuscan in altra sede, così come quella dei vari Chianti che si meritano pure loro un approfondimento a parte.
Prosit!
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
- Guida ai vitigni d’Italia. Storia e caratteristiche di 700 varietà autoctone, Slow Food Editore, 2017
- A. Scienza e S. Imazio, La stirpe del vino, 2018
- J. Robinson, Guida ai vitigni del mondo, Slow Food Editore, 2003
- Vino, il libro completo, 2019
- A. Scienza, Atlante geologico dei vini d’Italia, 2019
- Le carte del vino. Atlante dei vigneti del mondo, 2018
- J. Robinson, J. Harding, The Oxford Companion to Wine, 2015