126 – Carnorum haec regio iunctaque Iapudum, amnis Timavus, castellum nobile vino Pucinum, Tergestinus sinus, colonia Tergeste, XXXIII ab Aquileia. ultra quam sex milia p. Formio amnis, ab Ravenna CLXXXVIIII, anticus auctae Italiae terminus, nunc vero Histriae. quam cognominatam a flumine Histro, in Hadriam effluente e Danuvio amne eodemque Histro exadversum Padi fauces, contrario eorum percussu mari interiecto dulcescente, plerique dixere falso, et Nepos etiam Padi accola
(Plinio il Vecchio – Naturalis Historia – Liber III)
Per raccontare la storia di questo vitigno e del suo vino bisogna partire da molto, molto lontano. I nomi si intersecano, si fondono e si confondono e generano una nebbia che non è facilissimo dissolvere e che lascia scappare qualche effetto non ricercato.
La citazione qui sopra è tratta dal III libro della mastodontica opera di Plinio il Vecchio Naturalis Historia che in alcune parti tratta anche di vigne e vini (il XIV libro, in particolare). In questo caso, tuttavia, siamo in una sezione precedente che racconta delle regioni italiane e, infrattato nelle pieghe delle esposizioni geografiche, troviamo, tuttavia, la menzione di un vitigno che ci tornerà utile.
Plinio – lo si legge nel passo qui sopra – menziona la regione dei Carni con il castello di Pucino, noto per il suo vino.
Purtroppo, l’unica fonte antica che menziona questa varietà è questa di Plinio che, è risaputo, compose la Naturalis Historia basandosi su altre fonti e non per osservazione diretta; fonti che, è bene ribadirlo, non sono giunte tutte a noi. La stessa Historia, per come la conosciamo, è una ricostruzione filologica rinascimentale con alterna qualità che, in alcuni casi, va a inficiare anche la veridicità di quello che racconta.
In ogni caso, sul Pucino sappiamo che era il vino preferito di Livia, seconda moglie dell’imperatore Augusto, che amava gustarlo nella sua villa fuori Roma – (lo riporta sempre Plinio nel XXXVII libro) e se lo faceva arrivare dal nord Italia. La Giulia Augusta della citazione è appunto Livia, che alla morte di Augusto si cambiò il nome in onore del marito e della sua gens.
Iulia Augusta LXXXII annos vitae Pucino vino retulit acceptos, non alio usa. Gignitur in sinu Hadriatici maris non procul Timavo fonte, saxoso colle, maritimo adflatu paucas coquente amphoras, nec aliud aptius medicamentis iudicatur. Hoc esse crediderim quod Graeci celebrantes miris laudibus Praetetianum appellaverint ex Hadriatico sinu.
Il Pucino era un vino che aveva una produzione estremamente limitata, il cui vitigno era coltivato nei pressi delle sorgenti del Timavo, sulle rive dell’Adriatico (nella zona montuosa che si affaccia sulla costa tra Monfalcone e Trieste).
Plinio, inoltre, sempre nel III libro, ci specifica un dettaglio interessante:
Pucina vina in saxo cocuntur, Caecubae vites in Pomptinis paludibus madent. Tanta est argumentorum ac soli varietas ac differentia
Notevoli alcuni particolari che emergono: il suolo è marcatamente caratterizzato da molto scheletro (come in effetti è tutt’ora nelle zone del Carso) e il nostro vitigno letteralmente “cuoce” nel calore dei sassi; la sua natura arida è messa, inoltre, a confronto con quella delle paludi pontine in cui le viti del Cecubo, letteralmente, annegano.
Da qui in poi il nulla. Il silenzio avvolge il Pucino e la sua storia si ferma con Plinio. Dovranno trascorrere molti secoli perché il suo nome venga ritirato fuori dal cappello del Carso.
Ci si prova, a capire dove fosse il famoso castello ma non c’è modo di trovarne l’esatta ubicazione. Tenta, tra gli altri, anche Carlo Marchesetti, archeologo, paleontologo e botanico italiano, che nel 1876 a colpi di fonti storiche e coordinate geografiche riesce a delimitare in una ventina di kilometri la probabile posizione del sopraddetto castello: a sud di Duino e a nord di Prosecco. Coincidono i suoli, le vegetazioni mediterranee e la coltivazione diffusa della vite.
Marchesetti a sua volta cita Volfango Lazio, estimatore del prosecco-vino e medico, storico e geografo rinascimentale, che nel 1551 cita anche lui la regione tra Duino e Prosecco e ne asserisce l’identità con il Pucinum.
“…atque toto isto litore vineta sunt electissima et ubi optimum Rifolium vino precipue Prosecchi nascitur, quod dubio procul Pucinum illud Plinii fuit
Com. Reip. 1 XII
Non è tuttavia il primo, come asserisce Marchesetti nel suo saggio: la sua teoria segue di non molti anni quella del triestino Pietro Bonomo (1458 – 1546), segretario, consigliere di corte e vescovo di Trieste dal 1502 che muore prima della pubblicazione del 1551 del Lazio.
Il vescovo, riprendendo le citazioni di Plinio, opera un salto ardito e a suo avviso doveroso: il castello di Pucinum è quello di Prosecco – però situato nei pressi di Tergeste e non del Timavo, più distante ma citato da Plinio – e, di conseguenza, il vino di cui tanto parla solo Plinio, il Pucinum, è il Prosecco del Castello di Prosecco.
In un colpo solo l’astuto prelato riesce a diradare i dubbi relativi alla fonte pliniana e dare una precisa indicazione geografica tipica, storica e fascinosa al vino di Prosecco, togliendolo dall’indeterminatezza del “ribolla” che allora lo designava, un uvaggio bianco e dolce “frutto di vendemmie tardive di uve surmature”.
Aveva dei territori vitati, il vescovo, e faceva gioco anche a lui questa genealogia sontuosa, nobile e attraente.
Marchesetti, tuttavia, è molto cauto nel portare avanti tale tesi: i dubbi, suoi e di altri studiosi, sono ragionevoli e fondati. Uno tra tutti: a nessuno verrebbe in mente di definire Prosecco come un posto sassoso e arido e la distanza tra il Timavo e Tergeste non passa inosservata nella descrizione di Plinio. Quindi, a seguire la descrizione della Historia, bisognerebbe optare più per Duino che per Prosecco, se proprio volessimo essere precisi.
Quella di Bonomo è una vera e propria raffinata operazione di naming e marketing ante-litteram che nei secoli successivi diventa difficilissimo – e lo è tutt’ora – scardinare e che viene ripetuta, ribadita, amplificata e consolidata da più parti, soprattutto durante tutto il corso del Settecento. Anche perché questa narrazione rafforza il carattere geografico e territoriale del vino e fa gioco ad una serie di percorsi affabulatori utili ad incardinare sempre di più vite e vino a quel territorio che ha la strepitosa fortuna di avere un paese con lo stesso nome del vitigno e del vino.
A questo punto lasciamo le fonti storiche e rivolgiamoci alle analisi genetiche.
Per fortuna, il Prosecco è stato oggetto di profonde ed attente valutazioni che hanno fatto luce sulla sua storia e hanno diradato la nebbiosa confusione che ancor oggi serpeggia sul nome e sulla sua origine.
Le fonti scientifiche sono concordi: non c’è un prosecco, ci sono i prosecchi. E questa, intanto è la prima cosa di cui prendere atto.
Fin dal XVII secolo ci sono molte varietà morfologicamente distinte che assumono il nome di prosecco nella zona di Conegliano Valdobbiadene. Durante la metà del XIX secolo, il nobile Marco Giulio Balbi Valier selezionò e coltivò una particolare variazione clonale chiamata “Prosecco Tondo” (detto anche “Prosecco Balbi”); dopo il 1980, altre due variazioni clonali furono selezionate per portare avanti ulteriori studi su questa cultivar proprio nel centro enologico di Conegliano. Le due varietà si chiamavano “Prosecco Lungo” e “Prosecco Nostrano”.
Tutte le analisi condotte sulle tre varietà, sia quelle morfologiche che quelle genetiche, hanno provato che le presunte variazioni clonali di fatto erano invece varietà distinte. Attualmente, quindi, il Tondo viene chiamato semplicemente Prosecco, quello Lungo ha mantenuto invariato il suo nome e quello Nostrano è stato dimostrato essere geneticamente identico alla Malvasia Bianca Lunga.
Inoltre, sempre attraverso ulteriori analisi genetiche, si è scoperto che esiste una robusta correlazione genetica tra il Prosecco e il Prosecco Lungo, sebbene per ora si possa escludere una parentela diretta genitore-figlio.
Molto più interessante, invece, un ulteriore riscontro parentale sempre generato dall’analisi genetica: la Vitovska, una cultivar bianca originaria della regione carsica al confine tra Italia e Slovenia, ha una naturale discendenza dal Prosecco e dalla Malvasia Bianca Lunga.
Infine, cosa assai più importante e dirimente, la comparazione genetica dei vari profili esaminati mostra che il Prosecco è assolutamente identico al Teran Bijeli (Bijeli in croato significa bianco), precedentemente considerata una varietà rara originaria dell’Istria che si è dimostrato essere, a sua volta, geneticamente identica anche alla Briska Glera e alla Steverjana, che prima si pensava fossero due distinte varietà coltivate in Slovenia.
Come ormai tutti sanno, nel 2009 è stato istituito il consorzio del Prosecco Conegliano Valdobbiadene DOCG mentre la DOC Prosecco fu allargata sostanziosamente. Per supportare questa enorme operazione di promozione e tutela, il Consorzio pose in atto alcune azioni ufficiali tra cui il cambio di nome che mutò da Prosecco a Glera – considerato il suo sinonimo locale friulano -, mentre Prosecco fu riservato alla designazione di origine, onde evitare che altre nazioni nel mondo o altre regioni sempre italiane potessero essere autorizzate a produrre il vino prosecco e trarne vantaggi economici producendo vini bianchi spumantizzati.
Chiaramente, per ottenere tutto ciò la DOC si allargò al punto tale da includere anche il paesino di Prosecco, in provincia di Trieste. Territorio che, come abbiamo spiegato prima, si voleva supporre essere quello di origine del vitigno, rifacendosi, quindi, alle storie tramandate a partire da Plinio e manipolate dal vescovo Bonomo.
Penso ora sia chiaro come questa operazione politica e di marketing abbia portato non solo grande confusione ma anche moltissimi fraintendimenti, come si diceva prima ancora attuali (una nota marca di prosecco ha abbastanza recentemente creato un nuovo spumante pubblicizzandolo sulla base delle fonti pliniane e del falso storico costruito da Bonomo).
Il nome Glera è un nome generico che viene usato in applicazione a molteplici varietà distinte della provincia di Trieste e recenti studi hanno dimostrato che generalmente il nome Glera si riferisce al Prosecco Lungo e molto meno frequentemente, invece, al Prosecco (Tondo), così come ad altre varietà originarie della regione del Carso quali la Vitovska o, ancora, la Mocula.
Nella ricostruzione della relazione genetica tra viti croate, alcune ricerche, inoltre, hanno dimostrato che il Prosecco, sotto il nome di Teran Bijeli occupa una posizione cruciale in relazione ad altri vitigni croati e pure, ad alcuni proveniente dalla Bosnia. Questo studio, infatti, supporta in modo piuttosto consistente l’origine istriana del Prosecco: come conseguenza di tutto ciò, è altamente probabile che il piccolo villaggio di Prosecco, in provincia di Trieste, fosse solo una delle varie tappe del viaggio di questa varietà dall’Istria al Friuli (e poi fino alla zona di Valdobbiadene) e che il suo vero nome originale fosse Teran Bijeli e non, come ancora oggi alcuni cercano di sostenere, il Pucino.
E ora veniamo al terzo passaggio: il prosecco che viaggia in Australia.
Nel 2009, quando i funzionari regionali veneti si sono resi conto di quanto successo stesse raccogliendo a livello mondiale il loro bianco frizzante, leggero, facile e fresco, hanno deciso di proteggerlo dalle possibili intrusioni di altre aree del paese ma, soprattutto, di altre nazioni che avrebbero potuto trarre vantaggio da questa enorme operazione di marketing e tutela, replicando il marchio senza tanti scrupoli.
Il problema però era enorme: dal momento che si può solo tutelare un’indicazione geografica o IG (come ad esempio è il caso dello Champagne) ma non l’uva e il suo nome (come, ad esempio, il Sangiovese o il Trebbiano), cosa si sono inventati i veneti?
Hanno cambiato il nome dell’uva Prosecco nel suo presunto sinonimo friulano di Glera, come spiegato prima hanno allargato la DOC così da ricomprendere all’interno della zona protetta il paese di Prosecco e hanno dichiarato che il nome “Prosecco” era DOC.
Purtroppo, in questa corsa alla tutela non sono state compiute le dovute e doverose ricerche nè consultati altri organismi internazionali di vinificazione. E già nel 1997 – quindi ben 10 anni prima di questi cambiamenti – alcune talee dell’uva contesa erano belle che arrivate in Australia protette dalle tasche della famiglia di Otto Dal Zotto di Valdobbiadene che nel 1999 mise a dimora le prime barbatelle nella King Valley di Victoria.
In Australia.
(p.s. la famiglia Dal Zotto che ancora oggi produce prosecco in Australia ha due linee sotto l’etichetta “Pucino”: quando una narrazione non vuole proprio morire).
A novembre 2013 l’Australian Trade Marks Office si rifiutò di ratificare la richiesta dell’Unione Europea di considerare e quindi registrare il Prosecco DOC quale GI (Geographical Indication). La base giurisprudenziale per l’ente fu che la Winemakers’ Federation of Australia (WFA) aveva già presentato un ricorso sostenendo la tesi secondo cui già da molti anni il termine “Prosecco” in Australia veniva utilizzato non solo per identificare una varietà di uva ma, pure, il vino che da queste uve veniva prodotto. In pratica, i due enti australiani si spalleggiarono nel difendere il loro diritto di coltivare, produrre e commercializzare il Prosecco, come vite e come vino.
L’accordo del 2009, ratificato nel 2010, tra Australia e Unione Europea infatti, prevedeva la protezione immediata delle indicazioni geografiche europee mentre in alcuni casi particolari – per venire incontro ai coltivatori australiani messi in difficoltà dai veti che ne sarebbero scaturiti – era stato trovato un accordo per un periodo cosiddetto “di transizione” che poteva durare sino al settembre 2011, dopo il quale per i produttori australiani non sarebbe stato più possibile utilizzare denominazioni quali “Champagne”, “Porto”, “Sherry” più altre.
Tutte le operazioni della regione Veneto per la protezione del “Prosecco” prima menzionate, però, risalivano al 2009, ed è solo in quell’anno che la cultivar cambiò nome e da Prosecco diventò Glera e questo non bastò a fermare le proteste degli Autraliani che, piuttosto correttamente, sostenevano di usare già prima il nome sia per il vitigno che per il vino.
Oggi ci sono 120 ettari (sic!) di Prosecco piantati in 11 regioni australiane, che secondo Wine Australia producono circa 20 milioni di bottiglie. Le esportazioni di Prosecco australiano valgono 60 milioni di dollari (ovvero 32,5 milioni di sterline) all’anno e si prevede che saliranno a 500 milioni di dollari nel prossimo decennio.
E la corsa continua (avete mai visto, ad esempio, la pubblicità del Prosecco della Yellow Tail?)
E non è finita qui.
La diatriba si è riattizzata nel 2018 quando Australia e l’Unione Europea hanno ricominciato le trattative per un nuovo accordo di libero scambio. Uno dei punti in discussione per giungere ad un accordo era la richiesta da parte dell’Italia dei diritti esclusivi sull’utilizzo del nome del “Prosecco”. Nel 2020 il governo australiano, forte della situazione di fatto precedente all’escamotage veneto del 2009, per andare preparata al tavolo delle trattative ha commissionato alla Monash University di Melbourne uno studio per verificare la base legale dell’utilizzo delle indicazioni geografiche negli accordi commerciali. I ricercatori di Monash coinvolti nella stesura del parere hanno ritenuto che l’applicazione di un’indicazione geografica per il Prosecco violerebbe le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Quindi lo scontro continua. E a meno che non ci sia una risoluzione a favore dell’Italia, i produttori australiani potranno continuare a produrre e vendere Prosecco.
Con buona pace di Plinio il Vecchio, del suo Pucino e del Castello di Prosecco.
Articolo protetto con marca temporale Patamu
Per approfondire:
- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
- C. Marchesetti, Del sito dell’antico castello Pucino e del vino che vi cresceva
- F. Colombo, Prosecco. Patrimonio del nordest
- T. H. Buchinger, Per un sublessico vitivinicolo
- S. de’ Siena, Il vino nel mondo antico
- A. Henserson, Storia dei vini antichi
- J. Robinson, The Oxford Companion to wine