VinOsa

Il vino nella scienza e la scienza del vino. Quattro chiacchiere con il chimico del suolo: Pellegrino Conte

Prolegomena

Sono tornata dal professor Conte dopo la sua prima intervista qualche mese fa. Rino lo conosco da molti anni, abbiamo elegantemente superato la decina da qualche tempo e so che su certi temi è tra gli scienziati più affidabili che io conosca.
La mia passione per l’interazione pianta-suolo dal versante della chimica del suolo e, ancor più, dei processi fisici sottesi all’assorbimento di acqua e nutrienti da parte della pianta; la composizione sia geologica che chimica dei terreni dei vitigni; la lunga catena di interazioni dai suoli al grappolo, mi portano ad apprezzare ancor più le spiegazioni che Rino mi offre ogni qual volta gli rivolgo i miei dubbi e le mie ignoranze.
Per la prima volta, ahimè, mi vedo costretta ad una introduzione perché sento l’impellente urgenza di chiarire il mio punto di vista e la mia posizione relativamente a quelle che molti considerano letteralmente pseudo-scienze in relazione alla vite, all’uva e al vino.
Al mondo enologico nel suo complesso, insomma.
Mi preme chiarire questo per un una serie di motivi che ritengo importanti non solo per questo blog, poca cosa direi, ma in generale come modus cogitandi generale.
Non voglio discutere se un vino sia buono o meno. Quello lo faccio quando mi confronto con dei sommelier, o con chi assaggia per diletto, ma anche con enologi – certo – quando esprimono il loro gusto personale.
Sul quale, tutti lo sappiamo e lo so pure io, non si discute mai.
E quando dico mai, io davvero intendo proprio mai.
Non ci sono, a mio parere, vini buoni o vini cattivi in assoluto o a priori.
Kantianamente, urge l’obbligo dell’esperienza per un giudizio.
E dunque, apriamo la bottiglia, versiamo nei calici e vediamo che cosa succede: a volte capita la magia, a volte tutto va a finire in un rivolo giù per i tubi.
Nessun preconcetto, nessun pregiudizio.
Ma qui, ora non si parla di questo, e ci tengo a precisarlo con decisione. Non discuto di gusti altrui, ma se una cosa funziona o non funziona per la scienza; se cammina per certi percorsi e se risponde a determinati requisiti che niente hanno a che vedere con la bontà.
A quasi tutti i miei intervistati è stata posta la fatidica domanda relativa alla biodinamica e le risposte sono state per la stragrande maggioranza un muro compatto di scienza di fronte a derive fumose.
La scienza non entra, per ora, nel merito del buono o del piacere soggettivo.
Entra però, a tutto diritto, e con mano – magari guantata ma sicuramente di ferro – nei dati e nei numeri; nelle statistiche e nei risultati; nei processi e nei metodi.
Io ho bevuto dei vini biologici di una schifezza infamante e dei vini biodinamici di cui mi sono innamorata al primo sguardo. Vini convenzionali immondi e vini convenzionali di una bellezza e fascino immortali.
Ora però torniamo a parlare di numeri. Quindi se una cosa è scientifica, se funziona, se è sostenibile, se è replicabile. Correlare come spesso vedo fare le due cose è pericoloso, inadeguato e incongruo.
Se dovessi usare un termine desunto dalla logica formale direi che chi fa questo non è “sound”.
Non solo: nel mio modo di pensare se mi si dice che una cosa funziona, che è maggiormente sostenibile, che non ha impatto ambientale, che protegge la biodiversità io sono la persona più felice della terra. Ma me lo devi dimostrare.
Perché il verbo “credere” in alcuni ambiti, come è questo della coltivazione della vite e della produzione di vino, non ci sta. Se me lo dimostri va bene, se no è come neve che al primo raggio di sole si scioglie.
E qui arriviamo alla seconda motivazione. Non esiste un periodo storico in cui ad un’affermazione, ad una prassi consolidata, non si sia contrapposta una fazione, più o meno rumorosa e facinorosa, che sosteneva il contrario. A volte nel bene, sovente nel male, il dualismo fa comunque parte del gioco delle parti che è la vita umana. La deriva però, preoccupante su tutti i fronti della scienza, mi porta a dire che qualsiasi piccola goccia a sostegno di un certo modo di procedere, di pensare, di applicare la ragione, dovrebbe essere sempre la benvenuta.
Non ho la pretesa di cambiare il mondo, né la testa dei suoi abitanti, né il pensiero di qualche lettore. Uso il mio tempo e questo spazio che ho creato per divulgare qualche bella cosa – di altri, molto più bravi di me – che riguarda una mia passione, basandomi sul rigore della ragione, parlando di fatti e facendomi aiutare dalla scienza.
Sui gusti, ripeto, continuo a non disputare.

FINE

Oggi facciamo quattro chiacchiere con il Professor Pellegrino Conte che molti già conoscono per la sua presenza costante in rete grazie alla sua pagina Facebook ed al suo blog con cui prova a demistificare miti e leggende su argomenti più o meno popolari tra il grande pubblico della rete. Il professore è stato già con noi in passato (qui), ma oggi lo chiamiamo in causa per parlarci un po’ più approfonditamente di agricoltura biodinamica, pratica che oggi sta riscuotendo grande successo in una buona fetta di popolazione – fatta anche da persone insospettabili per cultura e formazione – orientata verso una alimentazione cosiddetta salutistica, ovvero quella che è conosciuta come alimentazione “senza”: senza grassi, senza olio di palma, senza glutine, senza residui di pesticidi eccetera eccetera.

Il tu lo lasciamo stare, eh Rino? 😀

Beh, direi.

Ok, allora procediamo.
Che ne pensi di tutta questa grancassa sull’alimentazione “senza”?

Che è la solita sciocchezza costruita ad arte. Non occorre essere un nutrizionista per sapere che non sono i grassi, il glutine e via discorrendo che portano a patologie più o meno gravi, ma l’alimentazione scorretta. Se io mangio una fetta di torta al cioccolato, mi sento meglio perché il cioccolato mi dà soddisfazione. Se mangio 5 kg della stessa torta tutti in una sola volta, mi devono portare in ospedale perché, a parte l’indigestione, avrò anche livelli di glicemia altissimi. La cosa che, però, mi fa ridere, rimanendo in ambito enologico, è che molto spesso i pro-alimenti-senza sono anche quelli che parlano di vini naturali perché più salutari, senza rendersi conto che l’alcol contenuto nel vino in quantità spesso più alte del 12 % è una sostanza cancerogena. Peraltro, aggiungo, e poi passiamo ad altro, che il concetto di “senza” sotto l’aspetto scientifico non ha alcun senso. L’evoluzione tecnologica consente di costruire strumenti analitici sempre più sensibili. Pertanto, oggi arriviamo a trovare sostanze che solo qualche anno fa erano invisibili. Non perché non fossero presenti negli alimenti, ma perché il loro contenuto era al di sotto del limite di rilevabilità strumentale. Per fare un paragone un po’ più impattante, è lo stesso che dire che oggi il numero di tumori è in costante aumento rispetto a 50 anni fa. Una affermazione del genere non tiene conto delle migliorate capacità diagnostiche che consentono di “vedere” un tumore prima ancora che esso si sviluppi in tutta la sua patogenicità.

Ok. Ok. Ho capito. Passiamo ad altro e parliamo di agricoltura biodinamica. Ci spieghi meglio cosa è?

Non sperare che io sia meno polemico. Anzi. Ripartiamo, in modo sintetico, dall’ultima cosa che ho detto nella prima intervista: si tratta di magia. È una pratica agricola che non ha nulla di scientifico, ma si basa su riti e superstizioni inventati da Rudolph Steiner all’inizio del ’900. Steiner era un visionario, ma non nel senso positivo del termine. Non va accomunato con gente del calibro di Newton, Galileo Galilei, Giordano Bruno – solo per mantenerci nel passato, citando persone a cui gli pseudo scienziati tendono sempre a confrontarsi – o Einstein, Planck, Dirac, Pauling – per andare a persone a noi più vicine nel tempo – che erano scienziati nel senso compiuto del termine. Il modo di essere visionari delle persone appena citate ha permesso lo sviluppo verticale della scienza, ovvero del corpo di conoscenze che oggi ci consente di usare i social network, di andare sulla Luna, su Marte o di aver superato le colonne d’Ercole del nostro sistema solare. Le visioni di Steiner sono quelle tipiche di una persona che non ha alcuna idea di come si possa fare scienza e basa le sue conoscenze sulla superstizione e sull’esoterismo.

Come l’omeopatia, allora.

Anche se può sembrare paradossale detto da me, ritengo che Steiner non possa nemmeno essere accomunato a Samuel Hahnemann, da cui traeva spunto, se consideriamo i periodi storici in cui i due personaggi si muovevano. Hahnemann – ovvero l’inventore dell’omeopatia – nacque nella seconda metà del ‘700 ed è vissuto in un’epoca in cui la medicina, intesa come scienza, stava muovendo i primi passi. All’epoca non esistevano i farmaci e le pratiche mediche che conosciamo oggi. Le patologie venivano curate con purghe, unguenti, emetici e salassi che facevano più danni che bene. Pensate, per esempio, al colera. È una patologia che comporta perdita di liquidi. Somministrare purghe o stimolare il vomito non è esattamente il meglio per questa patologia e di certo un salasso od un unguento non servono assolutamente a nulla. Ma questo lo possiamo dire oggi. Al tempo in cui si è trovato a vivere Hahnemann, quanto ho appena scritto non era noto. Ecco perché nel contesto storico in cui la medicina poteva ben poco nei confronti di epidemie più o meno mortali, Hahnemann sognava delle cure che potessero funzionare in maniera meno invasiva e potenzialmente mortale di quelle utilizzate allora. Ebbe, quindi, la geniale idea dell’omeopatia. È una pratica che, di fatto, cura una patologia con rimedi che non contengono alcun principio attivo. In altre parole, non hanno alcuna efficacia farmacologica. Piuttosto che usare pratiche invasive e pericolose – lo ripeto, purghe, unguenti, emetici e salassi – meglio non usare nulla. La probabilità che la patologia potesse guarire seguendo il suo corso era molto elevata. È proprio questa inefficacia farmacologica dell’omeopatia, che allontanava i pazienti da cure più “distruttive”, ad essere stata la fonte del suo successo iniziale.

Ok. Ed allora perché Hahnemann può essere considerato un visionario in senso positivo mentre Steiner no?

A differenza di Hahnemann, Steiner è vissuto tra il 1861 ed il 1925. La microbiologia era già nata – Pasteur, per esempio, si occupò dei batteri che proliferano nei vini intorno al 1855; Sommelweiss, altro esempio, capì l’importanza del lavarsi le mani per un medico nel 1840 – la termodinamica aveva già ricevuto uno sviluppo enorme con Gibbs tra il 1875 ed il 1878. In questo contesto, mentre le teorie di Hahnemann erano già considerate come un ramo secco dell’evoluzione scientifica ai tempi di Steiner, questi le prese, le riformulò e le riportò in auge. Vuoi un esempio?

Certo. Anzi devi

Parliamo della dinamizzazione e del cornoletame. La dinamizzazione è una procedura inventata da Hahnemann per la preparazione dei suoi rimedi. Nel suo Organon of medicine, Hahnemann dice chiaramente che la diluizione all’infinito di un principio attivo deve essere effettuata sbattendo ritmicamente il contenitore su un libro rilegato in pelle o fatto di crini di cavallo. Questa operazione, chiamata succussione, poteva avere un senso nella prima metà dell’Ottocento perché non erano ancora noti i principi della diluizione ed era in vigore la teoria della vis vitalis. In pratica, a quei tempi si riteneva che un sistema potesse essere diluito all’infinito e che in questa operazione il soluto non si “perdesse” ovvero fosse sempre presente all’interno del sistema. Fu solo a partire da Cannizzaro che le cose cambiarono e si capì che diluizioni infinite portavano a sistemi in cui il soluto non era più presente.

Aspetta un attimo. Ma non è stato Avogadro a stabilire che a diluizioni infinite il soluto era praticamente assente dalla soluzione?

No. Avogadro stabilì nel 1811 che “volumi uguali di gas differenti alla stessa pressione e temperatura contengono il medesimo numero di particelle elementari”. Fu solo nel 1865 che Loschmidt – un chimico austriaco – determinò che il numero di tali particelle fosse pari a 6.022 x 1023 – in realtà il valore esatto fu determinato molto più tardi, ma non importa. Fu solo all’inizio del Novecento che un chimico francese, Perrin, decise di dedicare questa costante ad Avogadro.

Scusa. Stavi parlando di Cannizzaro e del ruolo delle diluizioni

Sì. Dicevo che a partire da Cannizzaro – che, peraltro, contribuì non poco alla verifica delle osservazioni di Avogadro – si capì che il paradigma secondo cui un sistema potesse essere diluito all’infinito mantenendo comunque traccia del soluto, era sbagliato. In soldoni, questo paradigma si basava sul concetto di vis vitalis introdotto da Berzelius nella prima metà dell’Ottocento per spiegare la differenza tra i composti organici, legati alle forme viventi, e quelli inorganici che, invece, caratterizzavano le forme non viventi. La vis vitalis era intesa come un quid, un qualcosa, che permeava tutti gli esseri viventi e le molecole che li costituivano ma non i sistemi non viventi. Si trattava di un qualcosa che, come si può intuitivamente comprendere, era legato ad una influenza religiosa: il fiato divino che diede la vita ad Adamo ed i suoi discendenti. Quindi, il processo di dinamizzazione – è da lì che siamo partiti – serviva ad estrarre questa vis vitalis e portarla in soluzione. Infinite diluizioni non eliminavano la vis vitalis, ma la rafforzavano in virtù del fatto che le succussioni, ovvero le agitazioni che ho citato prima, legavano saldamente la vis vitalis al solvente. Nel 1824, Whöler – un chimico tedesco – convertì l’isocianato di ammonio – composto inorganico, quindi non dotato di vis vitalis – in urea – composto organico, quindi dotato di vis vitalis. L’epoca del vitalismo era finita, nasce la chimica organica come scienza. Stiamo parlando del 1828, ovvero 33 anni prima della nascita di Rudolph Steiner e 98 anni prima della sua morte. Ricordiamo anche che il 1905 è stato l’annus mirabilis di Albert Einstein e che  la meccanica quantistica ha cominciato a vedere la luce proprio all’inizio del Novecento. In altre parole, il periodo in cui è nato e vissuto Rudolph Steiner potrebbe essere considerato come l’esplosione cambriana della scienza. Riportare in vita la dinamizzazione – alla luce di tutto quello che ho evidenziato – per la realizzazione di  preparati da usare in ambito agricolo, denota anacronismo e profonda ignoranza del ribollire scientifico che lo circondava.

Ho capito che Steiner, quindi, era arrivato fuori tempo massimo con le sue teorie (o meglio pseudo teorie) scientifiche, ma cosa è il cornoletame e cosa c’entra con la dinamizzazione?

Ecco. Adesso vediamo cosa è questo famigerato cornoletame e poi cerco di spiegare perché è in relazione con la dinamizzazione. Partiamo dallo spiegare quale fosse il ruolo delle corna nelle vacche secondo Steiner. Secondo il nostro – riprendo le parole esatte – “la vacca ha le corna al fine di inviare dentro di sé le forze formative eterico-astrali, che, premendo verso l’interno, hanno lo scopo di penetrare direttamente nell’organo digestivo. Proprio attraverso la radiazione che proviene da corna e zoccoli si sviluppa molto lavoro all’interno dell’organo digestivo stesso […] Così nelle corna abbiamo qualcosa di ben adattato, per sua natura, a irradiare le proprietà vitali e astrali nella vita interiore. Nel corno avete qualcosa che irradia vita – anzi irradia anche astralità” (qui). Bene. Ora alla luce di queste idiozie che non hanno nulla a che vedere con fisica, chimica e biologia – che già a tempi di Steiner avevano rigettato queste idee strampalate – se prendiamo il letame di vacca, lo inseriamo in un corno di vacca, possibilmente primipara, lo seppelliamo in inverno e lo disseppelliamo nel periodo pasquale otteniamo un prodotto – il cornoletame, appunto – che ha proprietà mirabolanti. A cosa sono dovute queste proprietà? Ma al fatto che le corna raccolgono l’energia “astrale” – adesso sto semplificando perché mi viene da ridere – che viene accumulata nel materiale organico fermentato attivandone le caratteristiche miracolose. Come ci accorgiamo che la trasformazione da vile letame a magico humus è avvenuta? Semplicemente perché il materiale assume un gradevole odore di sottobosco. Ma non è finita. Adesso viene il collegamento con la dinamizzazione. Infatti, questo materiale deve essere sospeso in acqua (circa 250 g in 60 L di acqua tenuta alla temperatura di 35-40 °C) ed agitato mediante succussione. A differenza della succussione hanhemaniana, quella di Steiner prevede l’uso di un mestolo che deve essere ruotato prima in una direzione, poi nell’altra. L’agitazione è necessaria per “potenziare” ulteriormente le caratteristiche miracolose di tale humus mediante l’energizzazione di fantomatiche forze farmacodinamiche latenti. Ovviamente Steiner si guardò bene dal dare una precisa definizione di queste robe strane, e come lui anche quelli che si allineano a questa filosofia di estrazione vitalista non sanno cosa sono queste forze. Mi è capitato di partecipare a un seminario di un esponente molto importante di questa scuola che, penosamente, invocava la meccanica quantistica di cui – me ne sono accertato con domande ad hoc – non conosceva neanche le basi. La dinamizzazione deve essere fatta per almeno un’ora. Infine, una volta dinamizzata, la sospensione deve essere spruzzata sui suoli.

Va bene, dai. A parte la storiella delle forze farmacodinamiche latenti e l’energizzazione mediante l’agitazione ritmica, mi sembra che l’idea sia quella di produrre un concime organico che serva a migliorare la fertilità del suolo. O mi sbaglio?

No, non sbagli. Ma il punto non è questo. Vuoi sapere quanto di questo concime bisogna applicare?

Certo!

Bisogna spruzzare circa 200-300 g di questa roba su un ettaro di terreno. Secondo Steiner ed i seguaci della sua setta religiosa – perché alla fine si tratta né più né meno che di una religione – questa applicazione incrementerebbe il contenuto di sostanza organica del suolo.

E non è così?

Guarda, adesso entriamo più nel dettaglio facendo i conti che insegno ai miei studenti. Un suolo soggetto ad agricoltura contiene tra l’1 ed il 2 % di sostanza organica. Mettiamoci nel caso più sfavorevole e ammettiamo di avere un suolo che contenga l’1% di sostanza organica. Trasformiamo questa percentuale in un peso assoluto assumendo un valore medio per la densità reale di un suolo il valore di 2.7 g/cmc (non è un valore inventato. Si tratta della densità tipica dei suoli della nostra penisola) e considerando i primi 5 cm di suolo come quella parte interessata allo sviluppo radicale. La quantità di sostanza organica corrisponde approssimativamente a circa 13 tonnellate. Se invece della densità reale si usa il valore medio della densità apparente (1.5 g/cmc), si ottiene una quantità di sostanza organica pari a circa 8 tonnellate. Quando spruzziamo il cornoletame dinamizzato su un ettaro di terreno, aggiungiamo, nelle condizioni migliori, 300 grammi di sostanza che assumiamo essere tutta di natura organica. 300 g su 13 o 8 tonnellate  di sostanza organica (a seconda di come facciamo i calcoli) ti sembra un incremento significativo? Quello che possiamo dire è che l’appezzamento di terreno viene irrigato, quello sì. E, come sappiamo, l’acqua è fondamentale per la dinamica dei nutrienti e la nutrizione vegetale. Ma sai quel è la cosa bella?

No, dimmi!

Avendo realizzato che 300 g di sostanza organica rispetto alla tonnellata media presente nel suolo non rappresentano alcun incremento, si sono buttati sulla microbiologia. Ora affermano che questa roba che altro non è che acqua sporca, incrementi l’attività microbica dei suoli migliorandone la qualità.

Ma ci sono prove in merito?

No. Ovvero, se andiamo a guardare i siti in cui questo cornoletame viene descritto (per esempio qui e qui) si fa aneddotica senza uno straccio di riferimento. Posso dire polemicamente che basta saper leggere bene in italiano per capire che nei documenti linkati si usa un linguaggio che scimmiotta quello scientifico, ma svuotato di ogni significato. Però, mi sono andato a prendere la briga di cercare lavori pubblicati recentemente. Ebbene, c’è un lavoro pubblicato nel 2012 (qui) in cui gli autori fanno una caratterizzazione chimica del cornoletame. Le conclusioni sono ovvie e permettono di dire che il materiale che si ottiene mediante maturazione del letame di vacca inserito in un corno e sotterrato ha caratteristiche umosimili, ovvero non è altro che un sistema del tutto simile chimicamente all’humus.

E perché dici che le conclusioni sono ovvie?

Beh, cosa ti aspetti si possa ottenere dalla decomposizione del letame? È per questo che i nostri antenati – ed in realtà anche noi oggi – lo usavano per la fertilizzazione dei campi. Il letame apporta sostanza organica fresca al suolo – cosa importantissima perché un suolo soggetto ad attività agricola si impoverisce di sostanza organica – che decomponendosi si trasforma in humus e rilascia lentamente i nutrienti di cui le piante hanno bisogno per crescere. Però va bene. Un lavoro scientifico fatto su un materiale nuovo di cui si sa poco non può far altro che apportare nuove conoscenze. Un po’ meno bene è da considerare la seguente frase scritta nell’abstract e ripresa con maggiore foga alla fine del lavoro: “Our results provide, for the first time, a scientific characterization of an essential product in biodynamic agriculture, and show that biodynamic products appear to be enriched of biolabile components and, therefore, potentially conducive to plant growth stimulation”. E sai perché?

Sono tutt’orecchi

Perché si potrebbe concludere una cosa del genere solo se gli autori si fossero peritati di usare un controllo, cosa che si sono ben guardati dal fare.

Cosa vuoi dire?

Voglio dire che va bene che hanno utilizzato il cornoletame ottenuto seppellendo il letame di vacca inserito in un corno di vacca, ma perché non hanno confrontato questo materiale con quello ottenuto nelle stesse condizioni, usando un corno di plastica ed un corno di argilla? E perché limitarsi solo ad un contenitore a forma di corno? Potevano valutare l’efficienza del corno confrontando il materiale ottenuto per maturazione in un contenitore a forma di cassetta, per esempio. Se fossero valide le ipotesi fantasiose di Steiner, allora si sarebbero dovuti aspettare una composizione chimica differente. E se, invece, la composizione fosse stata identica, allora, le ipotesi di Steiner sarebbero state falsificate – in senso popperiano – ed avrebbero dovuto concludere che tutti i materiali ottenuti mediante maturazione del letame in un contenitore a forma di corno o di qualsiasi altra forma sono adatti per le applicazioni biodinamiche. Ma non è finita qui.

Adesso stai stimolando la mia curiosità…

Voglio dire che gli stessi autori sono andati oltre pubblicando nel 2013 un lavoro in cui hanno valutato l’attività biologica del cornoletame (qui). Le conclusioni sono fantastiche: ci dicono che il cornoletame spruzzato sull’insalata stimola la crescita della pianta. Peccato che ci siano diverse pecche in questo lavoro.

Quali sono?

Cominciamo dal fatto che sebbene abbiano usato la formulazione consigliata, ovvero 200 mg di cornoletame in 60 mL di acqua – corrispondenti ai 200 g per 60 L di cui parlavo poco fa – hanno applicato questo ammontare in scala di laboratorio, ovvero su pochi grammi di suolo. Peccato solo che nelle condizioni reali quell’ammontare non implichi alcun miglioramento del suolo mentre in scala da laboratorio la concentrazione usata è almeno un migliaio di volte più elevata di quella che si deve usare in campo. È chiaro che in laboratorio si possano vedere degli effetti, se le concentrazioni non sono quelle usate in campo. Ma la pecca più consistente è legata al fatto che non c’è alcun controllo come punto di riferimento. Come ho evidenziato prima, non hanno verificato se effetti analoghi sono dati dal materiale ottenuto per maturazione in corni di plastica, di argilla o in contenitori diversi da quelli a forma di corno. Se eventuali  confronti consentissero di dire che gli effetti sono analoghi, allora non si potrebbe certo parlare di proprietà particolari del cornoletame. Purtroppo, questi confronti, nei lavori citati, non ci sono e le conclusioni sono banalmente delle opinioni soggettive senza riscontro sperimentale. E sto trascurando anche il fatto che nel lavoro anzidetto vengano usati impropriamente diversi riferimenti.

Cosa vuoi dire?

Semplicemente che mi sono andato a scaricare alcuni lavori citati come fondamentali per l’agricoltura biodinamica ed ho potuto constatare che in essi si discute di agricoltura biologica e non biodinamica.

E che differenza c’è?

In Italia, l’agricoltura biodinamica è inquadrata come agricoltura biologica. In pratica, gli agricoltori devono rispettare sia i protocolli stabiliti dalle nostre leggi per l’agricoltura biologica, ma anche quelli stabiliti dalla Demeter (una multinazionale detentrice del marchio “biodinamica”) in cui si raccomandano le pratiche messe in atto da Steiner. Se vuoi un riferimento basta prendere il link che ho già consigliato (qui). Quindi, sebbene io non sia un fan particolare dell’agricoltura biologica, devo ammettere che esistono un po’ di lavori fatti seriamente che dimostrano la qualità – in senso positivo – di questo tipo di agricoltura. Al contrario, come hai visto, i lavori cosiddetti scientifici sulla biodinamica sono carenti proprio sul lato scientifico. E questo mi dispiace molto perché conosco gli autori e mi chiedo cosa li abbia portati ad elaborare dei disegni sperimentali carenti sotto tutti gli aspetti.

Ho capito che ti sei concentrato sui lavori di persone che conosci. Ma esistono dei lavori fatti in modo più serio sulla biodinamica?

In realtà, ci sono tantissimi lavori sulla biodinamica. Una sintesi la puoi trovare sul blog di Scienza in Rete dove Enrico Bucci ed Ernesto Carafoli hanno preso in considerazioni tutte le metanalisi sulla biodinamica (qui).

Spieghi ai nostri lettori cosa è una metanalisi?

Una metanalisi è un lavoro in cui vengono giudicati in maniera critica tutti gli studi fatti in un dato settore. Nel caso della biodinamica, le metanalisi raccolgono tutto quanto fatto fino a quel momento su questa pratica e vengono evidenziati limiti e vantaggi dei disegni sperimentali usati nelle varie sperimentazioni in laboratorio ed in campo. Come riportato nel lavoro di Bucci e Carafoli, in nessuna delle metanalisi prese in considerazione la biodinamica ha evidenziato delle positività rispetto alla tipica agricoltura biologica o alla agricoltura cosiddetta intensiva. Una cosa molto interessante, comunque, è che Bucci e Carafoli parlano di uno studio fatto da ricercatori indiani in cui sono stati confrontati cornoletami prodotti in corni di natura differente (qui). Gli autori ammettono che il cornoletame prodotto nel corno di vacca e quello ottenuto in un corno di argilla sono assolutamente identici (che è quello che avrebbero dovuto fare anche i colleghi di cui parlavo sopra).

Insomma, come avevi detto nella prima intervista, di scienza ce n’è ben poca.

Eh, sì.


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