Site icon VinOsa

La genesi di un gioiello

Prosecco di Conegliano Valdobbiadene Superiore extra dry “47/87” – Rive di Vidor 2019 – Castello di Berton

C’è nessuno? è permesso?

Fa un caldo tremendo, L’idea era quella di andare a trovare Vittorio di lunedì per evitare la confusione del fine settimana e trovarlo tranquillo. Però tra una cosa e l’altra si accumula il ritardo e raggiungo Vidor alle 11.30 passate.

33 gradi. Non male. Ma perché ho esitato tanto a prendere la macchina stamattina? Vallo a capire…

La porta scorrevole del capannone è semi-aperta quindi provo ad entrare. Il silenzio è assoluto.

Scusate, posso? c’è nessuno?

Finalmente qualcuno mi risponde: prego, entri, entri.

Non vedo nulla, dalla luce accecante dell’esterno alla comoda e fresca penombra dell’edificio gli occhi fanno fatica ad abituarsi. Il fresco quello no, quello arriva subito a consolarmi del caldo. Finalmente respiro. E inizio a sentire i primi profumi di uva e fermentazione.

Mappa risalente agli anni Trenta della zona Conegliano Valdobbiadene

Siamo a Vidor, nel cuore della DOCG Conegliano Valdobbiadene, la 44° DOCG d’Italia istituita nel 2009. Il meglio del prosecco di una zona baciata dal fato benevolo con secoli di allevamento della vite. Le radici di questo prezioso “saper fare” si perdono nel tempo anche se le testimonianze, davvero numerose, zampillano un po’ per tutto l’arco temporale che giunge fino a noi.

San Venanzio Fortunato, vescovo di Poitiers (530-607) nella sua descrizione di Valdobbiadene, sua terra di origine
(“luogo dove germoglia la vite sotto l’alta montagna, nella quale il verde lussureggiante protegge le zone più brulle”)

Già nel 530 si parla della coltivazione della vite qui, ma a pensarci bene lo stesso nome “Vidor” pare richiamare tale pratica. Secondo Giovan Battista Pellegrini, nel suo Toponomastica italiana. 10.000 nomi di città, paesi, frazioni, regioni, contrade, monti spiegati nella loro origine e storia, il toponimo Vidor deriverebbe da una volgarizzazione del latino vitis.
Durante il Medioevo, a ridosso del Piave dove arrivano i confini meridionali del comune, furono costruiti un castello (ora distrutto) e un ponte che divenne punto nevralgico per centinaia di anni, sia per i commerci che, successivamente, durante la Prima Guerra mondiale per il passaggio di uomini e mezzi al di qua e di là del Piave.
Agli inizi del XII secolo fu, inoltre, eretta una abbazia per poter conservare degnamente i resti di Santa Bona, portati nella zona dal conte Giovanni Gravone, reduce dalla Prima Crociata. L’abbazia ebbe alterne vicende ma fu comunque un importante centro di rinascita e di governo del territorio, pur finendo soppressa nel 1773.

Aureliano Acanti, Il Roccolo – ditirambo – 1754


Come in molte parti d’Europa accadde, anche qui i monaci si dedicarono alacremente al recupero del suolo incentivando sia opere di deforestazione sia, poi, di coltivazione tra cui, anche, della vite.

Il Cristo della domenica – S. Pietro di Feletto

Che la viticoltura e la vinificazione fossero centrali per queste splendide colline è inoltre testimoniato anche da alcuni affreschi, tra cui spicca quello del Cristo della Domenica – una tematica abbastanza diffusa in un’epoca marcatamente religiosa – secondo cui di domenica non si doveva lavorare per non far dispiacere al Cristo. Negli affreschi vengono rappresentati gli attrezzi e le azioni dei giorni feriali ed è facile intuire di cosa si occupassero gli abitanti dell’epoca e di quale fosse il ruolo della viticoltura nella loro vita quotidiana.

Vittorio Berton mi accoglie con un bel sorriso e con gentilezza tipicamente “veneta”. Mi fa accomodare e senza fretta si fa raccontare cosa mi ha portato da lui un lunedì di luglio.

La versione breve, brevissima è: ho sentito del tuo Rive, me ne sono innamorata e sono qui per sentire la tua storia.

Quella lunga è, appunto, lunga.

Decanter è una delle riviste più prestigiose al mondo nel settore enologico; ogni anno organizza il DWWA, ovvero i Decanter World Wine Awards (DWWA), il più grande e prestigioso concorso vinicolo al mondo riconosciuto a livello internazionale per l’affidabilità del loro rigoroso processo di degustazione e selezione. 

Questo è stato per loro l’anno dei record, con 18.094 vini degustati provenienti da 56 paesi. Nel mese di giugno, per 15 giorni consecutivi quasi 170 esperti giudici di vino, tra cui 44 Master of Wine e 11 Master Sommelier, hanno premiato 50 Best in Show, 179 Platinum, 635 Gold, 5.607 Silver e 8.332 Bronze vini di tutto il mondo.

Un evento gigantesco ai limiti del comprensibile per i numeri che presenta.
Ebbene tra i 50 premiati Best in Show troviamo proprio il prosecco di Vittorio, il suo 47/87 del 2019.

D.: Partiamo dall’inizio? La tua formazione? Come hai deciso di fare l’enologo? Qual è la storia della cantina?

R.: La cantina nasce nel 1922, quando il bisnonno approda a Vidor spostandosi dalla zona di Caorera nel bellunese, dove, dal punto di vista viti-vinicolo, non c’era alcun tipo di prospettiva di crescita. Le condizioni climatiche, per esempio, non erano delle migliori lì, al contrario di Vidor dove la tradizione viticola è più che millenaria. E quindi il bisnonno decide di spostarsi a Vidor. Va quindi ad acquistare tutti gli appezzamenti di terreno adiacenti al castello di Vidor che in quel momento erano adibiti ad area boschiva, li va a convertire tutti in vigneto e da lì nasce l’azienda. Abbiamo sempre vinificato, non è mai stato di nostro interesse commercializzare l’uva. In altre parole, il prodotto primario fin dall’epoca è sempre stato trasformato. Inizialmente i quantitativi erano bassi e servivano solo ed esclusivamente per il sostentamento della famiglia.

Orientamento delle colline del prosecco

D.: Il bisnonno era enologo o viticoltore?

R.: No, era un semplice viticoltore. Poi il nonno prende in mano l’azienda; poi, dopo di lui, mio padre, e quando avevo 16-17 anni mi dice “perché non pensi di iscriverti alla scuola enologica di Conegliano?”.
E già là c’è stata la prima pressione.
Gli ho detto di lasciarmi tempo. Quella è una età in cui non riesci a prendere grandi decisioni. Un po’ condizionato da mio padre, un po’ dagli amici mi sono iscritto ad enologia. A me piaceva tanto la chimica e fortunatamente a Conegliano si studiava la chimica enologica.  Poi mi sono diplomato e mi sono trovato di fronte ad una seconda scelta. Andare all’università, fare un’esperienza all’estero (all’epoca avevo ricevuto delle richieste per passare 12 mesi in Nuova Zelanda), oppure fare l’analista in un laboratorio chimico di analisi enologiche.

D.: Dove?

R.: Qui a Bigolino ce ne è uno. Ma la stessa azienda ha una sede anche a Tezze di Piave. Per il primo periodo ho scelto quest’ultimo.

D.: Come mai non sei andato in Nuova Zelanda?

R.: Non me la sono sentita. Ero troppo giovane e intimidito. Comunque, mi trovavo bene e mi piaceva tantissimo quel tipo di lavoro.
Però un bel giorno papà mi disse “Cosa facciamo? L’azienda è qua, pronta…”

D.: Ma sei figlio unico?

R.: No, ho anche un fratello molto più grande di me che però fa altro. Per un breve periodo è rimasto qui in azienda con noi. Poi si è reso conto che non faceva per lui e ha ripreso a fare ciò che faceva prima.
Come stavo dicendo papà mi disse “oh beh, è ora che inizi a far qualcosa anche tu: se io rimango così come sono da solo, non mi interessa sviluppare l’azienda o aumentare la produzione se non ho un seguito”.
Allora, quello che gli avevo detto la prima volta, quando si era trattato di decidere i miei studi, glielo ripeto anche in questa occasione: fammici pensare.
Mi trovavo bene a fare l’analista, era un bel posto e stavo bene. Mi sarebbe dispiaciuto lasciare.

Alla fine però gli ho detto “Va bene, dai, vengo qua”.

Inizialmente ero in difficoltà perché per me era tutto nuovo. Conoscevo questo mondo solo dai libri e ho dovuto quasi ricominciare tutto da zero.

D.: Quanti anni avevi?

R.: Circa 22. Poi pian piano ho iniziato a sviluppare l’azienda, fare investimenti, imparare sempre più anno dopo anno, lavorando giorno dopo giorno con papà; e dicevo “papà si potrebbe far così” , “papà potremmo cambiare in quest’altro modo”, fino a quando abbiamo acquistato tutte le autoclavi, tutto quanto necessario per il confezionamento in modo da arrivare al prodotto nostro 100%.

Prima cosa succedeva: facevamo la vinificazione, avevamo tre contesti di mercato: la vendita dello sfuso in damigiana, nel periodo di marzo-aprile; la vendita delle bottiglie (che, però, non spumantizzavamo noi. Le facevamo spumantizzare da altre case spumantistiche, altre aziende, altre cantine un po’ più grandi di noi ma sempre della zona. Portavamo il vino base, filtrato, sterile, chiarificato, stabile. Spumantizzavano e imbottigliavano e poi ci restituivano il prodotto); e il terzo contesto di mercato era la vendita in cisterna cioè l’intera vasca perché la produzione in vigna e la relativa produzione in cantina era superiore a quella che riuscivamo a commercializzare tra sfuso e bottiglia.
Rimanevano 200-300-400 ettolitri, o quello che era, contattavamo altre aziende per sapere se lo volevano acquistare e, in caso positivo, arrivava il camion, caricava con la pompa l’intera vasca e se lo portava via.

Attualmente, invece, quel tipo di mercato lo stiamo un po’ accantonando (anche se qualcosina c’è ancora). Oggi commercializziamo molte più bottiglie di quello che facevamo una volta, ce le spumantizziamo noi direttamente e poi le mettiamo in vendita. Insomma, seguiamo tutta la filiera, internalizzando tutto dalla A alla Z.

D.: Torniamo in vigna. Tachis diceva: il vino si fa in vigna. Giusto?

R.: Sì.

D.: Allora, mi dici dove sono i posizionati i vigneti e che tipo di suoli hai?

R.: Gli appezzamenti sono dislocati in più zone e anche in più comuni. Ne abbiamo nel comune di Vidor, sia Vidor centro che nella zona del castello di Vidor, sia nella frazione di Colbertaldo. Sono tutti vigneti in collina. Poi abbiamo qualcosina anche in zona Valdobbiadene. E poi abbiamo anche dei vigneti in pianura, zona Cogolo- Pederobba-Onigo. Facciamo tutta la linea dei prodotti DOC. I vigneti di pianura sono quelli che poi portano ad una spumantizzazione o comunque una commercializzazione immediata. Sono prodotti che nascono pronti subito e prima, beverini e facili insomma.
Invece tutto quello che otteniamo dalle colline ci produce vini che a dicembre non sono ancora pronti. Hanno subito le stesse lavorazioni, però non sono pronti, non sono esplosivi, non sono pronti né a naso né in bocca. Hanno bisogno di più tempo.
Che prodotti otteniamo dalle colline? Secondo me prodotti unici nel loro genere per il semplice fatto che dal punto di vista del suolo ed anche del microclima le nostre colline sono l’ideale per questa tipologia di varietà.

Clima della zona di Valdobbiadene

D.: Solo Glera?

R.: Sì. Solo ed esclusivamente Glera. In pianura abbiamo un po’ di Pinot grigio.

D.: E come la coltivate? Piantagione classica per la Glera a doppio capovolto?

R.: Sia vitigni a Sylvot che a doppio capovolto.

D.: Ah ok, tradizionale.

R.: sì, sì. Il doppio capovolto solitamente in collina per non appesantire il filare.

D.: Tutto a mano?

R.: Sì.

D.: Per quest’area si parla anche di pendenze al 70%; che pendenze ci sono da te?

R.: Eh importanti. Comunque, dipende da zona a zona, dipende anche da come è strutturata la collina. Per necessità ne abbiamo dovute risistemare alcune che avevano delle viti storiche ma che non erano più produttive vuoi per patologie, vuoi per età, vuoi per una serie di fattori per cui non potevamo più mantenerle.  Quindi le abbiamo rimosse, abbiamo reimpiantato nuove barbatelle. Però, prima di fare tutto questo abbiamo anche risistemato tutta la collina. Quindi abbiamo allargato gli interfilari, abbiamo risistemato le rive, rinforzandole, ed altri lavori che da una parte consolidano la tenuta della collina ma dall’altra ci facilitano anche un poco il lavoro.
Invece, ci sono colline storiche dove i vigneti sono storici, nemmeno cammini… non ci sono proprio i passaggi ed è difficile quasi riuscire sia ad arrampicarci che a camminare perché ci sono pendenze troppo importanti. Davvero dura.

La piramide del prosecco

D.: Ma i ceppi più vecchi quanti anni hanno?

R.: Mah, diciamo intorno ai cinquant’anni.

D.: E come producono quelli?

R.: Quelli sono i migliori.

D.: Quanto fate come produzione?

R.: Beh, nel mondo DOCG, quindi prodotto che proviene dalle vigne in collina, non possiamo superare i 130 quintali per ettaro.

D.: Voi vi attenete al disciplinare o abbassate ancora?

R.: Nel mondo Rive, nello specifico la bottiglia 47/87 che, in etichetta, viene specificata come Rive di Vidor, da disciplinare abbiamo l’obbligo di rinunciare a una piccola percentuale della produzione. Non troppo perché altrimenti si vanno a perdere quelle che sono le caratteristiche specifiche della varietà. Il mondo Glera è già di per sé generoso, quindi, asportare troppo, secondo me, poi vai a perdere quelle che sono le sue caratteristiche. Non è come coltivare, per esempio, uno Chardonnay o un Pinot o un Gerwurztraminer.

Courtesy Conegliano Valdobbiadene DOCG

D.: Parliamo ancora dei suoli della tua azienda? Mi specifichi meglio i dettagli?

R.: Sono terreni di origine morenica, conglomerati di sassi ad impasto misto a seconda della zona. Ci sono delle colline più ricche di suolo, altre meno: voglio dire, mentre in alcune colline i profili di suolo sono più profondi, in altre i profili sono meno profondi e si arriva subito alla roccia madre. Pensa che quando abbiamo messo mano per risistemare una delle colline a cui accennavo prima, abbiamo trovato una vite storica, circa 50 anni, che era piantata sopra solo 20 cm di suolo e sotto aveva un unico fittone che si incuneava nella roccia per un metro, un metro e mezzo. Quindi evidentemente il fittone aveva trovato un buco e si era infilato nella roccia fino in fondo.
Cosa ne può uscire da una vite così? Un’uva fantastica.

D.: Bisognerebbe vinificarla separatamente, allora…

R.: Beh, noi lo facciamo.  Con le viti storiche riusciamo ad avere una tracciabilità in cantina. Ogni piccolo appezzamento di collina di viti storiche viene vinificato per conto suo. Se l’appezzamento è piccolino vinifichiamo in una 50 ettolitri, se è un po’ più grande usiamo una 100 hL. Quei prodotti lì come il 47/87 e l’altro – il DOC – non nascono a caso mescolando uve da pianura e da collina. Si tratta di pura Glera che viene solo da specifici vigneti.

Francesco Maria Malvolti (1725-1807), nel vol. VIII del Giornale d’Italia del 1772 cita il Prosecco riferendosi al Conegliano Valdobbiadene

D.: Visto che lo hai citato, arriviamo al tuo capolavoro: da dove nasce il nome 47/87?

R.: Il nome è un po’ particolare, ora ti racconto la sua storia.
Un giorno dico a mio padre: adesso che si può mettere la specifica in etichetta (cioè indicare da quale vigneto proviene l’uva, tipo Rive di Vidor, è un DOCG a tutti gli effetti ma con la specifica Rive di Vidor, quindi è un DOCG delle Rive di Vidor, e va denunciato prima della vendemmia da quale appezzamento tu vuoi ricavare l’uva per fare quella determinata bottiglia) io voglio fare una bottiglia. Lui mi fa: va bene, facciamo un Rive di Vidor.

Potevamo fare anche un Rive di Colbertaldo, però mi sono detto che sarebbe stato meglio produrre un Rive di Vidor perché l’azienda si chiama Castello di Vidor. Fatta questa scelta tecnica, mio padre prosegue: bisogna dare un nome alla bottiglia. Allora, pensa, pensa, pensa, a nessuno dei due veniva in mente niente. Una sera ci mettiamo al tavolo per assaggiare dalle autoclavi dei vini che erano pronti per l’imbottigliamento, dovevamo fare gli ultimi assaggi e gli ultimi eventuali ritocchi se fosse mancato qualcosa, e tra un assaggio e l’altro (più assaggi che meno a onor del vero) a un certo punto eravamo un po’ allegri e a quel punto ecco l’illuminazione: “Papà, che ne dici di 47/87??”.
Lui mi guarda e mi fa: ma che nome è questo? Che senso ha?
E io: è il tuo anno di nascita e il mio. Sono quarant’anni di differenza, 8 è multiplo di 4, il 7 viene ripetuto due volte e si spera che un domani, visto che son quarant’anni di differenza, si possa essere non più l’anno di nascita, ma l’età mia e l’età sua.
Vedi cosa fanno 4-5 bicchieri di vino?

D.: Grandissimi! Veramente un’ottima idea. Passiamo in cantina adesso? Mi fai fare un giro?

R.: Partiamo dal conferimento uve. Noi facciamo la raccolta solo ed esclusivamente manuale.

D.: Quanti siete?

R.: All’incirca 10-15 persone durante la vendemmia.

D.: Ma li trovate gli operai che sappiano fare il lavoro?

R.: Sì. Vengono messi in regola per quel periodo. In azienda, fissi, siamo io, mia madre, mio padre, un’impiegata e due dipendenti: sei in totale. Nel periodo della vendemmia diventiamo una quindicina.

Dicevo: conferimento uve. Facciamo la raccolta manuale. Portiamo l’uva in cantina con dei carri vendemmia in acciaio, refrigerati, con una coclea interna, una vite senza fine. Praticamente sono conici come carri. Arriviamo in cantina, attacchiamo un tubo alla parte posteriore del carro, che termina con una pompa che si attiva col trattore. Mediante la vite senza fine spingiamo l’uva nella pompa e nella pressa. Non facciamo diraspatura.

D.: Infatti questo volevo chiedere, raspi sì o no?

R.: No, non li togliamo quindi niente diraspatura perché quella parte di tannino che viene estratta dal raspo, nel mondo prosecco o comunque nella nostra realtà, va più che bene. Non è un tannino troppo duro, ci va bene. In più, il raspo all’interno della pressa crea anche una sorta di drenaggio perché mi facilita nella pressatura. Cosa che se rimuovessi il raspo, mi ritroverei con un mosto composto solo da buccia, polpa e vinacciolo. Dal momento che la pressa è cilindrica, dove su un lato c’è una tela che si gonfia, schiacciando l’uva senza raspo c’è il rischio che all’interno della grossa massa rimangano chicchi non schiacciati. Per evitare tutto ciò, il raspo aiuta perché drena. In più, se per caso togliessi il raspo, dovrei aumentare il ciclo di pressatura e le atmosfere e tutto questo non va bene. Noi facciamo cicli brevi con pressature soffici e temperature basse.
E scartiamo la vinaccia quasi ancora bagnata.
Con questo primo passaggio otteniamo il primo mosto, lo passiamo per uno scambiatore termico così da abbattere ulteriormente la temperatura per evitare possibili inizi di fermentazione ancor prima di poter lavorare il mosto. Lo portiamo a 16 gradi anche 15, in giornata rimane a quella temperatura e facciamo la prima scrematura. Con un flottatore e dell’azoto andiamo a raggruppare tutte le macroparticelle del mosto, quelle che nella prima fermentazione non ci interessano, e le spingiamo verso l’alto. Quindi la funzione dell’azoto con l’aiuto di un enzima pectolitico ci permette di fare prima una decantazione statica che è seguita dalla flottazione, cioè andiamo ad estrarre il mosto, si mescola in una campana con azoto e lo spingiamo all’interno di tutta la vasca.

D.: Posso chiederti in dettaglio della funzione dell’azoto?

R.: Ok, la funzione dell’azoto.
Fai conto che le particelle si siano già agglomerate grazie all’enzima pectolitico; quindi, che io vada a rimescolare l’intera massa, anche se l’enzima ha concluso la sua azione di far sedimentare tutta quella che si può definire “la parte sporca”, non è un problema perché le particelle si sono già aggregate. Faccio quindi passare il mosto per questo macchinario, la candela con dentro azoto, che si mescola con l’azoto medesimo che, come tutti i gas, tende verso l’alto portando con sé le particelle e andando a formare un cappello. In questo modo dopo qualche ora è possibile avere un liquido praticamente limpido che si può trasferire in un altro vaso vinario fino a quando, tramite una specola (un piccolo tubicino in vetro) non vedo che il cappello si è abbassato del tutto e quindi il residuo è scarto che non viene passato nel nuovo vaso vinario.

Al liquido, nel nuovo vaso vinario, viene addizionato il pied de cuve – lievito selezionato reidratato e moltiplicato che ha già iniziato la sua azione con la piccola porzione di mosto che è stata aggiunta – e lì inizia la fermentazione. Fermentazione che avviene a temperatura controllata: non certo i 15 gradi iniziali visto che la temperatura ovviamente inizia a salire. Attendiamo che la temperatura salga ancora, diciamo fino a circa 18/19, massimo 20 gradi così da permettere un buon avvio della fermentazione. Il processo dura circa una settimana, sempre che si alimenti in modo corretto il lievito. Si fanno ovviamente dei controlli a livello di APA (Azoto Prontamente Assimilabile) per verificare se manca qualche cosa, come per esempio sostanze azotate, sostanze ammoniacali o membrane cellulari o, comunque, alimento in generale per il lievito, nel nostro piccolo laboratorio che ho fatto attrezzare per questo.

Le analisi ci servono per i parametri di base, tipo acidità, pH, alcol, zuccheri e anche solforosa. Ecco, per quel che riguarda la solforosa già nel mosto, prima di fare tutto il lavoro con l’enzima, ne usiamo una piccola parte. Certo, molto dipende dall’annata e dalla sanità delle uve ma, diciamo, la media è circa 7 grammi per ettolitro.

Una nota: perché usiamo lieviti selezionati e non indigeni? Perché non ci piacciono e non sono propriamente sinonimo di territorialità. Rifacendoci anche al dettato del professor Moio, i lieviti sono lieviti, sono organismi unicellulari appartenenti alla categoria dei funghi, e fanno il loro lavoro. Con tutti i problemi che possono comportare gli indigeni non è il caso di mettere a rischio per una scelta del genere la produzione.

Una volta che abbiamo raggiunto questa fase, riabbassiamo la temperatura a 17°, a volte anche sotto i 15°. A questo punto operiamo il primo travaso, attendiamo un po’ che si sedimenti, in caso sia necessario e che vi sia ancora qualche residuo e pure che la carbonica si dissolva completamente – anche perché se vado ad aggiungere solforosa e la fermentazione non è conclusa può succedere che una parte venga “mangiata” e che mi ritrovi che non ci sia tutto quello che avevo aggiunto. Anche se, ripeto, sono quasi quantitativi “omeopatici”.

Per dire, quando travaso nel momento in cui sono sicuro che la fermentazione sia finita, vado con 2 grammi per ettolitro; non ne faccio tanti e comunque assaggio ogni giorno per valutare come stia andando tutto il processo. Se inizia ad andare un poco in riduzione effettuo un altro travaso, in caso contrario evito.

Faccio un po’ di batonnage con la feccia fine residua, due o tre travasi, e nel mese di febbraio faccio le filtrazioni con filtro per alluvionaggio o altro a seconda della tipologia.

Arriviamo così ad avere la base, con zero zuccheri residui, quindi completamente secca, filtrata, quasi sterile (ci interessa in questo momento l’indice di limpidezza). Facciamo, però, attenzione alla stabilità proteica; tra il secondo e il terzo travaso facciamo infatti un po’ di bentonite non tanto per togliere eventuali sentori ma per rimuovere tutte le proteine facilmente ossidabili ancora presenti. Se riusciamo con poca bentonite ad avere un prodotto ripulito dalle proteine bene, altrimenti ci pensiamo dopo, a prodotto filtrato.

In realtà, per essere precisi, poichè usiamo la bentonite farmaceutica noi abbiamo sempre un prodotto stabile: facciamo le analisi della stabilità proteica prima di aggiungerla così siamo sicuri di non andare a toccare parametri inutilmente e quella tartarica la gestiamo dopo in autoclave.

La base, pulita, filtrata, secca viene spostata in autoclave dove, più o meno, subisce lo stesso processo.

Mi preparo il nuovo pied de cuve, ovviamente con i soliti calcoli dell’innalzamento dei gradi alcolici per il numero di grammi zucchero e si addiziona alla base che parte generalmente dai 9.5/10.5°.

Calcolo quindi cosa serve per innalzare i gradi alcolici, per le 4/5 atmosfere che mi servono e, pure, per il residuo zuccherino.

Arrivati ai parametri desiderati, blocco il vino a -4° e a differenza della prima fermentazione faccio in modo che l’anidride carbonica venga trattenuta in autoclave minimo 60 giorni per il mondo dei DOC e 90 giorni per le DOCG.

Questo perché si sa che più rimane a contatto con i lieviti, più il vino diventa complesso ed acquista in longevità.

Dicono che il prosecco duri circa un anno: è così, vuoi perché è un prodotto veloce, vuoi perché le lavorazioni sono brevi, vuoi anche perché è un prodotto facile, snello, beverino, accattivante ma alla fine non è sbagliato.
Tuttavia, mi sono detto: perché non provare a fare qualche cosa di diverso?

Tanto che il 47/87 che ha preso tutti questi premi è un lotto del 2019: già da disciplinare, quelli che vengono classificati “Rive” non possono essere spumantizzati prima del primo gennaio successivo alla vendemmia e non lo puoi imbottigliare prima del primo marzo successivo alla vendemmia.

Però, come vedi, avresti 60 giorni ma noi ne facciamo 90.

Questo che ha vinto è vendemmia 2019 ma caricato in autoclave a dicembre 2020; sei mesi di autoclave e poi imbottigliato.

D.: Come sei arrivato a pensarla in questo modo?

R.: La situazione dell’azienda mi ha portato a poter pensare di fare una cosa del genere.
Per quale motivo: noi qui non abbiamo problemi né di spazi né di attrezzature perché siamo leggermente sovradimensionati. Se mi viene in mente di sperimentare qualche cosa di nuovo non mi trovo nella condizione di dover scegliere se fare il processo normale o i miei esperimenti. Ci possiamo permettere di fare sperimentazione di vario tipo e questo è un elemento davvero unico per poter cambiare e trovare vie nuove e magari qualitativamente eccellenti.

Quell’anno – il 2019 – quella collina aveva dato un prodotto eccezionale, ho pensato che si sarebbe potuto provare a fare qualche cosa di diverso e qualitativamente superiore; mal che andasse si poteva comunque commercializzare con gli standard di prima, che comunque erano stati raggiunti. In questo modo, invece, avendoli superati si trattava solo di capire se il risultato fosse all’altezza delle nostre aspettative oppure si fosse dimostrato “solo” un prodotto buono.

Anche a livello di spumantizzazione, poi, se devo lasciar lì un prodotto tre mesi, sei mesi, non mi crea nessun problema perché l’azienda così come è ora mi consente di scegliere e quindi di sperimentare.

D. Il premio quindi non nasce per caso.

R.: No, non è un caso, ci sono molti elementi dietro, oltre anche al fattore tempo, che non va sottovalutato, che ci hanno consentito di arrivare a questo punto. È tutto pensato, e posso dire con certezza che il 60% del premio lo ha fatto il territorio, la collina, il suolo e i vigneti che abbiamo lì; tutto il resto è il nostro lavoro.

Però c’è da dire che fin da subito si erano sentiti dei profumi pazzeschi dal lotto che veniva da lì e il materiale c’era tutto per fare un ottimo prodotto. Si poteva solo, come si è soliti dire, rovinare una cosa già di suo stupenda.

Ho quindi le mie schede per i vigneti, per i vari appezzamenti che abbiamo in giro, per le vasche e la provenienza di ciascuna parcella e percentuali.

D.:  In vigna che trattamenti fate?

R.: Beh, ogni anno c’è qualche problema a cui far fronte. Siamo fortunati perché i migliori vigneti sono su queste colline con quella pendenza vertiginose da vitigno eroico. Questo aiuta a non avere ristagni, sono sempre ventilate e anche questo aiuta.

Quest’anno tutto sommato sta andando bene, ha fatto un giugno molto caldo che ci ha risparmiato qualche trattamento. Vediamo ora come va a luglio e bene o male agosto più o meno sei salvo.

Anche il numero dei trattamenti varia, in collina si riesce sempre a farne meno rispetto alla pianura per le motivazioni che ho detto prima.

Per dire, in zona Col San Martino, poco dopo la ripresa vegetativa c’è stata la grandine e lì è chiaro che i trattamenti aumentano. La grandinata della scorsa settimana è stata anche peggio perché vanno curate le ferite alla pianta.

A livello di concimazione facciamo poca concimazione organica, poca a terra ogni due o tre anni, no sovescio; tutto il resto viene fatto a livello fogliare (per la quale abbiamo anche ricevuto qualche riconoscimento).

D. Vittorio, che dire, dopo questa spiegazione impeccabile apriamo e assaggiamo assieme?

R. Certo, assaggiamo.

Abbiamo degustato. E tutta la narrazione di Vittorio, come per un sortilegio enologico, si è trasformata in collana perlacea di profumi, aromi e flavour impreziosita da una trina cremosissima di meravigliose e sottilissime ma persistenti bollicine.

Un gioiello, appunto.

Courtesy C. Gerolimetto
Exit mobile version