VinOsa

Birre, bufale e grani antichi

Lasciamo ancora una volta lo spazio di VinOsa alla scienza di chi studia nei laboratori e ospitiamo, nuovamente, il professor Sergio Saia, che è già stato accolto tra le nostre pagine.

In questa occasione Sergio di racconterà di birra e grani antichi. Vai Sergio, raccontaci tutto.

Ho scritto in più casi dei cosiddetti “grani antichi” e quindi non spiegherò molto circa la loro natura. È possibile trovare spiegazioni in diversi articoli[1]  o interviste[2]. In breve, la definizione di “grani antichi” non esiste in letteratura scientifica. Si tratta di una definizione vernacolare per indicare genotipi di frumento oramai obsoleti. Tali genotipi possono appartenere o meno al Triticum durum (o T. turgidum, secondo alcune tassonomie) o al T. aestivum, nell’ambito dei quali troviamo il frumento duro e il frumento tenero. Ovviamente tra i fautori dei grani antichi esistono i più puristi, che tendono a chiamare “antichi” solo alcune specie del genere Triticum, e i più “generalisti”, che tendono a chiamare “antichi” anche alcuni genotipi di frumento duro o tenero la cui coltivazione è andata decrescendo, soprattutto nei primi decenni del secondo dopoguerra. Tale gradazione tra purismo e generalismo dipende, solitamente, dal prodotto venduto da chi se ne fa latore. In tutti i casi, tutti i c.d. grani antichi vengono indicati come naturali e antichi, ma non hanno nessuna delle due caratteristiche. Non sono naturali perché tutti i genotipi in coltivazione sono frutto di domesticamento, non sono antichi perché tutti sono sotto selezione, anche attualmente, e quindi adatti almeno a determinati contesti di coltivazione.

Infine, solitamente ai grani antichi vengono attribuite caratteristiche di maggiore salubrità o sostenibilità ambientale, ma non esistono evidenze a supporto di tali affermazioni. E nuovamente, sono solitamente sbandierati come più salubri o sostenibili dei moderni da chi li vende. A mio malincuore devo ammettere che tali affermazioni infondate arrivano tal volta da voci all’interno della comunità scientifica, le quali, nelle sedi di dibattito delle evidenze scientifiche, non hanno mai portato evidenze solide a supporto delle proprie affermazioni fatte, quasi sempre, in presenza di un certo conflitto d’interesse.

Esistono delle caratteristiche frequenti, ma non esclusive, dei c.d. grani antichi che è bene sottolineare per poter meglio comprendere il dibattito sulle bufale riguardanti la loro inclusione nel processo di birrificazione. Normalmente i c.d. grani antichi hanno una resa minore delle cultivar attuali quando coltivate nelle medesime condizioni. Tale minore produttività potenziale comporta, rispetto ai c.d. grani moderni, una maggiore dimensione del seme e un maggior contenuto proteico dello stesso. Inoltre solitamente hanno, nella frazione cruscale, un maggior contenuto in elementi minerali. Vi prego di rammentare queste caratteristiche, ma non trascurare il fatto che esistono ovviamente altre differenze e che, peraltro, tali differenze non sono generalizzate. Alcuni c.d. grani antichi sono molto simili ai c.d. grani moderni e, come già detto, non esiste una definizione chiara di “grani antichi”.

La diffusione dei c.d. grani antichi, va comunque detto, è un bene. Incidono in maniera irrisoria su tutto il frumento coltivato, ma se non altro offrono una possibilità di creare una banca di alleli utili per la selezione e chi vi scrive studia ampiamente tali aspetti.

Ovviamente, l’ampia disinformazione che gira su tali temi non poteva non sfociare anche nel settore delle birra, come spiegherò più avanti.

Prof. Sergio Saia

La birrificazione

Non mi soffermerò più di tanto sul processo di ottenimento della birra, perché non è oggetto del presente articolo. In breve, anche in questo caso, la birra si ottiene per fermentazione degli zuccheri solubili (il malto) ottenuti dall’orzo. Durante la germinazione, l’orzo (come tutte le specie) produce enzimi che degradano la componente amilacea, rilasciando zuccheri fermentescibili. In via teorica qualunque lotto di seme va bene, ma nella pratica, per ottimizzare il processo, il seme deve avere caratteristiche ben precise, e in particolare la dimensione, l’omogeneità di dimensione del lotto e il tenore proteico. L’orzo viene lasciato a germinare in condizioni particolari e controllate, quindi si estrae la componente zuccherina che, a seguito di altri numerosi passaggi, viene messa a fermentare fino all’ottenimento di alcool, non senza l’uso di altri ingredienti e soprattutto il luppolo. Non è mio interesse dibattere degli aromi, quindi sorvolerò sugli stessi. Durante questi processi è fondamentale ricordare che il tenore proteico è inversamente relazionato alla qualità per la birrificazione. Infatti durante la germinazione i semi attivano anche le proteasi, che dalle proteine di riserva liberano gli amminoacidi necessari al germinello per l’emergenza. Tuttavia un’eccessiva concentrazione proteica della granella di orzo è normalmente considerata svantaggiosa per il processo di birrificazione. Le proteine, quando in eccesso, possono infatti intervenire negativamente sulla limpidezza, favorire reazioni indesiderate con conseguente accumulo di composti che conferiscono sapori e odori non graditi e ridurre la stabilità della birra. Per questa ragione, solitamente, si pone molta attenzione al tenore proteico della granella (e anche ad altri suoi caratteri) e ove possibile si mettono in essere strategie mitigative.

Normalmente il malto è ottenuto esclusivamente da orzo, tuttavia può essere ottenuto (in maniera non esclusiva) anche da altri succedanei tra cereali o specie non cerealicole. Molto famose sono appunto le birre di frumento, ottenute in alcuni paesi europei con uso fino al 50% di frumento sul totale. Solo recentemente alcuni produttori, principalmente in Italia, hanno lanciato sul mercato birre ottenute con malto di solo frumento.

Come dicevo, non è mio interesse fare una trattazione dettagliata del processo di birrificazione e quanto detto sopra rappresenta solo alcuni aspetti del processo che è, invero, alquanto complesso.

Birra, bufale e grani antichi, un accostamento più che atteso

Prima di proseguire, è bene fare una precisazione doverosa. Personalmente, non applico alcun dogma alla produzione di alimenti. Spesso in Italia e non solo da più cori si difendono non meglio precisate tipicità, non meglio precisate esigenze di rispettare non meglio precisate ricette canoniche, etc. Sono sempre stato dell’avviso che il prodotto più buono è quel che piace e poco cambia se si tratti di una pasta fatta scuocere e condita con ketchup, della pizza con ananas o della birra con un dato ingrediente dal nome esotico. Non mi pare esistano obblighi al consumo di determinati alimenti, almeno in Europa, e trovo alquanto puerili quelle crociate contro preparazioni non ritenute conformi a un (sempre non meglio precisato) canone che spesso rinveniamo in rete o altrove. Da questo punto di vista, le birre di/con c.d. grani antichi hanno tutta la ragione d’esistere.

È abbastanza difficile dire cosa siano le birre di/con c.d. grani antichi. Come detto nel paragrafo precedente, quando si indica una birra come “birra di/con frumento”, la percentuale di questo sul totale può essere molto contenuta, anche di solo il 5%. Ciò non implica che non possa contribuire, per le sue caratteristiche, al sapore del prodotto. Inoltre a parità di percentuale di frumento sul totale, una birra di un c.d. grano antico può avere un sapore diverso da una di un c.d. grano moderno. Ma vi prego di fare attenzione: diverso non significa migliore. Tale differenza tra un determinato c.d. grano antico un determinato c.d. grano moderno può dipendere da molti aspetti, tra cui la dimensione del seme, il tenore proteico, il contenuto in crusca e molti altri caratteri non citati al momento che nel bene e nel male possono condizionare il prodotto.

Le bufale cominciano ad arrivare, abbondanti e attese, quando viene affermato che le birre di/con c.d. grani antichi siano tutte “migliori” delle birre di/con c.d. grani moderni. Così come non sussiste alcuna evidenza che la dicitura, tutta arbitraria, di “grani antichi” assicuri maggiore qualità, salubrità o sostenibilità della dicitura, altrettanto arbitraria, di “grani moderni”, lo stesso vale per la birra, per la quale le caratteristiche del prodotto non dipendono solamente da uno degli ingredienti ma anche dalla compresenza di altri ingredienti e da tutte le variabili del processo di birrificazione (es. il/i ceppo/i del/i microrganismi fermentatori utilizzati, le caratteristiche dell’acqua, le temperature di germinazione, di fermentazione, la presenza di passaggi particolari per il trattamento delle proteine e delle proteasi, la filtrazione, etc.).

Tutte queste variabili possono facilmente influenzare le caratteristiche del prodotto finale ben più della presenza di un suo componente. In sintesi, le birre di/con c.d. grani antichi non sono opportunamente più buone delle birre di/con c.d. grani moderni, senza contare che la percezione del sapore di un prodotto dipende moltissimo dalle aspettative che il consumatore ripone in esso e quindi da determinanti psicologici, tra cui leggere scritto “di/con c.d. grani antichi” sull’etichetta.

Chiarito questo aspetto, sul quale spessissimo si fa disinformazione, va sottolineato il climax della disinformazione nel settore. Così come per i c.d. grani antichi esiste il claim senza alcuna evidenza scientifica di maggiore salubrità rispetto ai moderni, lo stesso claim è stato appioppato, senza esitazione, alle birre di di/con c.d. grani antichi rispetto alla controparte. L’apoteosi di tale disinformazione sta nel fatto che la birra è un prodotto alcolico e dai dati di tutte le agenzie che si occupano di rischi per la salute emerge in maniera lapalissiana che non esiste il rischio zero per gli alcolici. In sintesi, è meglio non berli se si vuol ridurre il rischio dato dal loro consumo in quanto non esiste una quantità minima che non faccia danno.

Ma no, non preoccupatevi, so bene di essere su Vinosa, che tratta di vino, un prodotto che normalmente ha anche più alcool della birra e su vinosa e ho già rilasciato una intervista nella quale non facevo certo sconti al vino[3]. Non vi sto esortando a non bere vino o birra, ma al contempo non vi sto certo esortando. Con gli alcolici è bene essere estremamente cauti. Poi, ovviamente, ciascuno può bere a proprio piacimento (nei limiti della legge), ma è bene aver ben chiaro il concetto.

Orbene, tornando a noi, il delirio della disinformazione riguarda proprio il claim che le birre di c.d. grani antichi siano più salutari della controparte, il che è palesemente falso e non ha alcuna conferma in sede di letteratura scientifica. A un destino analogo vanno incontro i vini, per i quali viene avanzata, sempre senza evidenza, una certa salubrità in funzione della concentrazione in determinati composti (es. alcuni antiossidanti) o dell’assenza di altri (es. i c.d. “pesticidi”).

Tanto con il vino quanto con la birra il claim viene puntualmente da chi ha un conflitto d’interesse in materia e si fa latore, coscientemente, di disinformazione al fine di comunicare indirettamente al futuro bevitore che sta facendo qualcosa di buono scegliendo il suo prodotto (ora indicato come “c.d. grani antichi”, ora come “naturale” o con tanti altri appellativi che non hanno un riscontro scientifico).

Dunque, qualcuno concluderebbe che allora non si “deve” bere alcolici. Beh, esortare a bere è una cosa sbagliata, ma gli alcolici non sono certo vietati. Bevendone pochi si minimizza il rischio (senza mai annullarlo), senza dimenticare che il rischio cui il singolo è assoggettato è composto e dipende da tutti i fattori di rischio cui è esposto, non soltanto da uno.

Una breve conclusione

I c.d. grani antichi hanno alcune caratteristiche di interesse e non c’è alcun male a volerli e volerle valorizzare dal punto di vista commerciale, ma non hanno maggior salubrità o sostenibilità delle cultivar chiamate come controparte, puntualmente. E non va dimenticato che i c.d. grani antichi sono oggetto di selezione da parte dell’agricoltore, quindi non mantengono le caratteristiche: i c.d. grani moderni di oggi sono i c.d. grani antichi di domani. Ciò vale anche per i prodotti trasformati (birra, pane, pasta, etc.) le cui caratteristiche dipendono in maniera notevole dal processo, oltre che degli ingredienti. E l’influenza del primo è spesso preponderante rispetto ai secondi.

Piccolo  disclaimer

Mi occupo per professione di ricerca scientifica e docenza universitaria nel pubblico e nella mia carriera ho studiato e studio anche i genotipi di orzo, di frumento duro e tenero e di altre specie, ivi incluso il ruolo delle stesse caratteristiche nella trasformazione. I miei obiettivi di ricerca includono principalmente strategie per la riduzione dell’uso dei fertilizzanti minerali, per il contenimento delle malerbe in assenza di principi attivi di sintesi e per la salvaguardia della fertilità del suolo. Ipotizzo, come frequente, che qualcuno muoverà nei miei confronti le solite, sterili accuse di conflitto d’interesse ignari del fatto (e non solo) che sarebbe mio interesse perorare i c.d. grani antichi, ne ricaverei convenienza. Sono ovviamente aperto a un dibattito SERIO in materia.


[1] https://www.researchgate.net/publication/281937122_Focus_sui_grani_antichi_e_la_crescente_disinformazione_sulle_varieta_moderne

https://www.fidaf.it/wp-content/uploads/2018/05/Grani-antichi-e-bufale-moderne1.pdf e in minor misura QUI.

[2] https://www.vivalafarina.it/news/grano-antico-vs-grano-moderno-il-confine-inesistente

https://ciboalmicroscopio.blogspot.com/2018/03/la-scienza-del-pane-proteine-e.html

[3] https://vinosa.it/il-vino-nella-scienza-e-la-scienza-del-vino-quattro-chiacchiere-con-lagronomo-2/

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