Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia […]
Povero Cielo, già allora le donne se la tiravano, e fu così che nacque il detto: ” ‘A teng’ sol’ io!”.
E questo, però, ci riporta ad Alcamo, perché da lì partiamo e poi lì torneremo.
Terra interna, alle spalle di Palermo, Trapani e Marsala. Terra antica, risalente al periodo pleistocenico, con un suolo ricco di carbonati di calcio e percentuali di argille a ridosso del Monte Bonifato (che, purtroppo, hanno il pessimo vizio di franare appena piove). Molto presente anche il calcare di tipo dolomitico.
Serve saperlo?
Sì, serve. Perché questo tipo di suolo ha un suo impatto sui vigneti che sono stati scelti per dimorare in questa zona e, in seconda battuta, sui vini che vengono prodotti su quei suoli.
E serve anche per un confronto con piante e vini, uguali, che però vengono allevati più vicino al mare, a ridosso della costa e del porto di Marsala.
E qui inizia la nostra storia. Un giro lungo, come sempre, che ci porterà in giro per i mari e i paesi, per farci vedere come poi, alla fine, le distanze sono poca cosa.
Qualcuno dice che il Grillo è vitigno antico, autoctono della Sicilia, e a riprova di ciò riporta la composizione tradizionale del tipicissimo vino siciliano, il Marsala. Del Marsala si hanno notizie fin dal Settecento, si dice che fosse il vino più conosciuto al mondo, vino ufficiale della flotta dell’ammiraglio Nelson e preferito da Giuseppe Garibaldi. Insomma, Marsala caput mundi (o meglio, vini).
Leggenda, ma non troppo, vuole che la grande ascesa del Marsala dipese da un inglese, il commerciante John Woodhouse, il quale nel 1773 sbarcato in Sicilia per i soliti rifornimenti fu folgorato sulla via di Marsala dalla bontà di questo vino a tal punto da acquistarne qualche cinquantina di barili per portarseli nella terra d’Albione. E per consentire al vino di reggere al lungo viaggio, riscontrando decise affinità tra il vino siciliano e i fortificati di Spagna e Portogallo, lo fece addizionare con acquavite per aumentarne il grado alcolico e, conseguentemente, anche la stabilità.
Le leggende si susseguono come catenelle: qualcuno dice che la prima volta che il commerciante propose il vino in Inghilterra non incontrò molto successo. Ma la seconda volta che ci riprovò, lo imbellettò e raccontò di un liquido preziosissimo e raro e così iniziò la fama internazionale del Marsala. Il marketing non sbaglia un colpo.
Woodhouse tornò in Sicilia e si mise a produrre Marsala. Già prima di lui si utilizzava un metodo definito in perpetuum molto, molto simile al metodo Solera. Ma Woodhouse, navigante e grande conoscitore dei vini portoghesi e spagnoli, applicò minuziosamente il Solera al Marsala, continuando però la sua aggiunta di acquavite.
Cosa è il Solera? in pratica si fa una piramide di botti e si riempie quella più in alto del vino dell’anno. E via via che si procede verso il basso, i vini vengono travasati di anno in anno spillando dalle botti alla base, quelle appunto al suolo “solera”.
Per capirci meglio, per chi non lo conoscesse, agevolo un filmatino che fa capire bene come funziona il meccanismo
Un altro inglese, poi, sbarcò in Sicilia (curioso, ‘sta cosa degli sbarchi in Sicilia forse ci è sfuggita di mano) e iniziò pure lui la produzione di Marsala. Solo nel 1832, maxima cum calma, i Florio che venivano dalla Calabria si misero a produrre il delizioso vino fortificato (capito perché fortificato? con tutta quell’acquavite dentro non vuoi sentirti più arzillo e più forte?) e lo fecero conoscere in tutto il mondo. Piantumando, ovviamente, tutta l’area prospiciente il porto che si erano premurati di acquistare, così da poter imbarcare senza troppi sforzi e costi di trasporto il vino appena prodotto sulle navi che partivano per il mondo.
Terreni diversi questi di Marsala, rispetto a quelli di Alcamo, caratterizzati da vaste aree di sedimenti marini con presenza di calcare ma con non indifferenti percentuali di sabbia e argilla. In questo contesto la granulometria, oltre che la composizione diversa e la vicinanza al mare, donano al Grillo marino un’accentuata nota sapida e iodata che quello di Alcamo non possiede, ove invece sono predominanti i frutti tropicali, i fiori bianchi, il fieno e un accenno di note balsamiche.
Stupendi entrambi, ciascuno a modo suo.
I Florio, dunque, partirono alla grandissima, con la loro terra esattamente a ridosso del porto di Marsala e piantarono vitigni di uva bianca per poter produrre il vino. Il Grillo, peraltro, nella ricostruzione post-fillossera degli anni Sessanta, ebbe quasi la meglio su qualsiasi scelta e arrivò ad occupare quasi il 60% dell’allevamento viticolo siciliano, contribuendo in maniera preponderante alla composizione del Marsala.
E ora torniamo al tema del post. Ma il Grillo? che c’entra in tutto questo?
Eh, c’entra. Perchè la tradizione vuole che quando si descrive il Marsala una delle uve “tradizionali” che si citano sia proprio il Grillo, vitigno che viene allevato in quell’area, tra Marsala e Alcamo, come si diceva.
C’è un piccolo dettaglio, tuttavia, che è sbagliato e che la scienza e qualche ricerca bibliografica più accurata hanno aiutato a correggere.
Il Grillo non è un vitigno “autoctono” siciliano. Non è tra quelli antichi che si svilupparono a loro volta dai vitigni portati dai Greci vari secoli prima di Cristo e incrociati con le piante di vitis vinifera selvagge già presenti.
Grazie alla genetica ora si conoscono non solo i genitori del vitigno ma anche i nonni.
Il vitigno è figlio di due cultivar ben conosciute: il Catarratto e il famoso Zibibbo, noto anche come Moscato di Alessandria.
A loro volta, sono conosciuti, come dicevamo, anche i genitori del Catarratto e dello Zibibbo.
Il primo è un incrocio tra il Grecanico dorato e il Mantonico bianco. Due parole su questi due genotipi: il primo, udite udite, in Veneto è conosciuto talis qualis come Garganega.
– avete presente il Recioto di Gambellara e il Soave? Verona, Giulietta, l’Arena…, ecco, quelli sono fatti con la Garganega. Poi non dite che li dobbiamo aiutare a casa loro… –
Il secondo, il Mantonico bianco, è un vitigno antichissimo autoctono della Calabria che, quando si fanno esperimenti con la genetica capitano cose meravigliose, ha delle caratteristiche decisamente simili al Grillo di cui è nonno. Si conosce la sua presenza sulla costa ionica calabrese fin dal VII secolo a.C.
Dall’altra parte della famiglia, quella dello Zibibbo, abbiamo come genitori il Moscato bianco (e qui niente di strano, dato che la famiglia dei Moscati assieme a quella delle Malvasie è una delle più antiche – e qui siamo in Sicilia e da qui sono passati quasi tutti – oltre che essere anche annoverata nel gruppo dei vini aromatici di cui, però il Grillo non ha ereditato le caratteristiche profumate) e l’Eftakolio o Heftakilo di cui per il momento non si sa molto.
Ma a noi interessa tornare al Grillo. Se non è antichissimo pure lui e conosciamo i genitori e pure tutto il parentado, com’è che è stato confuso come vitigno autoctono e tramandato come lungamente usato per la produzione del Marsala?
E qui si scopre l’arcano. Il Grillo non è altro che una creazione di laboratorio del XIX secolo condotta da un esperto ampelografo siciliano, tal Antonio Mendola, di Favara noto per essere all’avanguardia su moltissimi temi di viticoltura. Produsse moltissimi innesti – tra cui il Grillo – dedicandolo con affetto al direttore della Scuola di Enologia di Conegliano, Giovanni Battista Cerletti e chiamandolo col nome del suo mentore, Moscato Cerletti.
Però, essendo stato usato massicciamente dalla commissione istituita post fillossera per ripopolare parte della produzione viticola siciliana, alla fine si persero le tracce di tutta la storia e il Grillo divenne patrimonio dell’umanità siciliana e dei bevitori che lo apprezzano.
Un po’ come la storia del famosissimo pomodorino siciliano di Pachino che, ahimè per loro, non è per nulla siciliano ma proviene dai laboratori israeliani che lo hanno creato.
Ma questa è tutta un’altra storia.