Graziana Grassini, lei è uno dei miei miti assoluti del mondo dell’enologia. Una donna e una professionista di grandissima classe e di inestimabile levatura.
Le ho fatto una corte lunghissima prima di riuscire a strapparle questa intervista che davvero questa volta avrei voluto fosse viso a viso. So che mi sono persa molti dettagli che sarebbe stato prezioso riportare anche a chi legge. Le espressioni, gli sguardi, i sorrisi o le frecciate di una persona che ha dispiegato tutta la potenza delle sue conoscenze e ha raggiunto risultati difficili da eguagliare.
Mi accontento e condivido la chiacchierata con la Lady del vino più famosa d’Italia.
Partiamo!
Graziana, ci diamo del tu e come prima domanda ti chiedo come è iniziata la tua avventura nel mondo dell’enologia. E, ancor prima, quella nella chimica analitica?
Fin da bambina sono sempre stata affascinata dal mondo della scienza, ma percependo lo studio “a tavolino” solo come il mezzo necessario per arrivare con la giusta preparazione alla sperimentazione, che era l’obiettivo ultimo che realmente mi attirava, per quell’esigenza, che già sentivo, di “muovere le mani per creare qualcosa di nuovo”. Fu così che, seppure al tempo i miei insegnanti consigliassero la strada del Liceo per i miei brillanti risultati scolastici, optai senza alcun dubbio per l’Istituto tecnico industriale per chimici e poi, con la maturità in tasca, mi cimentai con successo con il test d’ingresso alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
Ma in cuor mio il mio futuro era già disegnato: a soli diciannove anni ho realizzato il mio sogno di bambina di “muovere le mani per ottenere risultati creativi”, fondando nella mia terra natale un piccolo laboratorio di analisi agroalimentare, che, ero certa, mi avrebbe dato l’attesa soddisfazione.
È nato, così, il Centro Analisi CAIM, che, pure ingrandito e aggiornato alle ultime tecnologie, è ancora oggi il mio laboratorio di analisi e non solo, è anche centro di consulenza e Agenzia Formativa accreditata dalla Regione Toscana.
Una scelta sicuramente molto coraggiosa, specie in quel periodo in Maremma, e anche difficile da portare avanti perché costosa e complessa: ero ancora molto giovane, sapevo fare le analisi molto bene, ma talvolta non riuscivo a interpretare altrettanto bene i risultati. E a darmi del filo da torcere fu proprio il vino. Semplice da analizzare ma estremamente complesso da capire. Al di là del suo colore, delle sue qualità sensoriali, che avevo peraltro apprezzato sin da piccola quando rubavo piccoli sorsi dal bicchiere di mio padre, mi resi conto che dentro a quel bicchiere c’era tutto un mondo da scoprire.
Cominciai a sognare di diventare enologo quando ancora questa figura non esisteva. E, sebbene l’enotecnico fosse una figura prettamente maschile, non mi posi alcun problema a intraprendere questo nuovo percorso, senza peraltro incontrare difficoltà legate al genere. Appena diplomata entrai a far parte dell’Associazione enotecnici della Toscana, dove ebbi l’opportunità di conoscere Giacomo Tachis, diventato con il tempo il mio riferimento, il mio più grande amico, il mio maestro.
Ci racconti due cose di Tachis? Come è stato? Un episodio da memorabilia?
Giacomo aveva una considerevole personalità e una grandissima cultura combinate ad un carattere non facile. Parlava poco ma con lo sguardo ti faceva capire tutto. Mirava alla perfezione ed esigeva la precisione, la puntualità.
Amava lo studio, così come lo amo io. L’ultima volta che lo vidi, al momento di salutarmi, guardandomi fisso negli occhi, tenendomi per mano, mi disse: “Graziana, studia sempre”.
Una volta gli chiesi che cosa intendeva per “Grande Vino”. Mi rispose chiudendo gli occhi, mentre si dondolava sulla sua poltrona: “Vedi, Graziana, un grande vino è quello che, bevendone un sorso e chiudendo gli occhi, ti fa vedere l’immenso”. Mi fece riflettere tantissimo, in effetti aveva ragione. È un ricordo a me molto caro, che mi affiora alla mente ogniqualvolta degusto vini importanti.
Poniamo che io mi rivolga a te perché da perfetta principiante ho deciso di darmi alla viticoltura, quali sono i passi che mi faresti fare per avere, in cinque anni, un vigneto produttivo con un progetto enologico convincente?
Il progetto enologico rappresenta il punto di partenza, deve essere valutato e ben capito dal Consulente che supporta l’azienda, per cui lo analizzerei bene con te per comprendere il tuo obiettivo, ed in particolare la tipologia di vino che hai deciso di produrre, soprattutto con riguardo ai vitigni con cui intendi realizzarlo, e la capacità reale del prodotto finale di essere in linea con le esigenze di mercato.
Deve risultare convincente, sia, e soprattutto, per te che lo devi realizzare, con passione e ed energia, sia per me, che sono chiamata a supportarti e a consigliarti e indirizzarti lungo il percorso, e sia, infine, per il consumatore, per indurlo a scegliere di bere il tuo vino.
La prima cosa da prendere in considerazione è il terreno dove hai deciso di impiantare il vigneto, in quanto non è detto che presenti le condizioni migliori per raggiungere il tuo risultato prefisso. Il tipo di terreno, in particolare la sua natura geo-pedologica, unita alla costituzione chimica, alla giacitura e all’esposizione, hanno un impatto fondamentale sulle caratteristiche compositive ed organolettiche del vino.
In primo luogo, se non ci sono ab origine le condizioni ambientali ideali occorre modificare l’obiettivo enologico, individuando vitigni, cloni e portinnesti appropriati per esaltare il territorio, e, di conseguenza, progettando la cantina ed adottando le tecniche di vinificazione più opportune.
Successivamente, occorre scegliere il clone del vitigno/vitigni ed il portainnesto che più sono adatti al terreno e alle condizioni climatiche del luogo. Cosa non facile, anche se oggi sono disponibili molte informazioni utili, grazie alle numerose zonazioni viticole su varietà, cloni e portinnesti, che hanno interessato parte delle zone viticole italiane, ed ai numerosi test condotti dai centri di ricerca e dalle università. L’interpretazione dei dati esistenti deve essere, comunque, mediata da tecnici esperti: personalmente mi avvalgo del Dr. Stefano Pinzauti, che considero tra i massimi esperti di interazione suolo-vitigno.
La penultima fase è costituita dall’impianto del vigneto. Due aspetti importanti, spesso trascurati, consistono nell’adeguata preparazione del terreno e nello scasso, svolti adottando le tecniche migliori per il tipo di terreno che abbiamo, iniziando almeno un anno prima dell’impianto e nei periodi giusti, che nelle nostre zone coincidono con l’inizio dell’estate, per terminare entro la fine dell’estate. Di notevole importanza sono le sistemazioni idraulico-agrarie ed i drenaggi, che devono essere progettati con razionalità, secondo l’effettivo bisogno, tenendo conto delle caratteristiche del terreno e della posizione delle eventuali falde acquifere superficiali. Spesso per mancanza di programmazione si vedono impianti fatti in fretta, in periodi sbagliati, con terreno umido, ed i risultati negativi si vedono nel tempo.
Infine, si procederà con la messa a dimora delle barbatelle.
Giunti a questo punto, si dovranno attendere almeno altri cinque anni prima di poter avanzare un giudizio realistico sull’effettivo soddisfacimento delle aspettative iniziali.
Nel primo anno di vita delle barbatelle è di primaria importanza proteggere l’apparato epigeo: ogni foglia è fondamentale. Nessuna patologia, nessuno stress idrico, nessuna competizione con erbe infestanti deve limitare lo sviluppo vegetativo. È un anno di accumulo di sostanze di riserva.
Il secondo anno, oltre ad evitare gli stress precedentemente menzionati, si deve integrare una nutrizione per via radicale.
Il terzo anno si avrà una prima produzione che, seppure ancora molto esigua, si rivela fondamentale per capire se gli studi, le analisi e gli interventi preparatori degli anni precedenti sono stati indirizzati nella giusta direzione e stanno realmente conducendo ai risultati attesi. Prima dell’invaiatura questi grappoli devono essere tagliati. Una pianta in salute differenzia gemme a fiore appena le è possibile.
Il terzo anno è il momento decisivo per impostare una forma di allevamento.
Nel quarto anno l’obiettivo sarà quello di ricercare l’equilibrio vegeto-produttivo per non avere eccessi di vigoria oppure di produzione, regolando carico di gemme, lavorazioni del terreno e fertilizzazioni e mantenendo sempre la pianta ben protetta da patogeni.
Al quinto anno, seguendo le orme del quarto, ecco che finalmente sarò in grado di consegnarti il vigneto in produzione e completamente rispondente al progetto enologico.
Vino e scienza, scienza e vino. La scienza si basa sul metodo scientifico che prevede ripetibilità e riproducibilità. Però bisogna ammettere che questo fa un poco a pugni con l’impossibilità di produrre vini identici dalle medesime uve coltivate in ambienti differenti. Ed allora quanto la scienza aiuta la produzione dei vini, ma soprattutto quanto l’arte dell’enologo consente di migliorare la scienza?
Per la produzione del vino occorre conoscere molto bene le diverse discipline scientifiche che sono comprese nell’Enologia. Di fondamentale importanza sono la microbiologia e la biochimica, con i biochimismi dei molteplici processi coinvolti nelle diverse fasi di trasformazione dell’uva in vino, dalla raccolta delle uve, alla fermentazione alcolica e malolattica, fino alla maturazione e all’affinamento.
Conoscenza e saper fare sono gli ingredienti per ottenere un prodotto corretto nella sua espressione organolettica. Il metodo scientifico non può essere applicato al vino se non a scopo di ricerca: la scienza è fondamentale, ma poi è l’arte che fa la differenza. L’arte intesa come il saper fare del buon enologo, il suo saper mettere in pratica le conoscenze acquisite e, attraverso l’esperienza, il suo saper guidare i diversi processi di trasformazione fino al risultato individuato, al fine di trasmettere agli altri, attraverso le caratteristiche del vino, quella che poi è la filosofia stessa del produttore interpretata dall’enologo: la sua capacità di creare, attraverso lo studio delle peculiarità del vitigno come risultato dell’interazione con il suolo nelle condizioni climatiche in cui vive, un prodotto che, pur se frutto di analisi e ricerche scientifiche, più di molti altri è capace di stimolare sensazioni ed emozioni.
Le parole chiave del binomio scienza e vino sono conoscere, saper fare, interpretare.
Per produrre il vino le conoscenze tecniche costituiscono la base fondamentale e imprescindibile, ma da sole non bastano: per dare al vino quel guizzo, quella personalità che lo facciano emergere e lo collochino tra le eccellenze sono necessarie anche la sensibilità, il gusto e l’arte che il buon enologo utilizzerà proprio per indirizzare le sue ricerche scientifiche lungo percorsi che il solo approccio razionale non avrebbe neppure consentito di ipotizzare.
In questo senso si può affermare che l’enologo è in grado di indirizzare e migliorare la scienza.
In una tua intervista asserivi che l’enologo è fondamentale, perché “l’enologo è scienziato ma deve essere uno scienziato emozionato”. Bellissima definizione. Non pensi però che di questi tempi la gente tende a porre l’accento più sulle emozioni che sulla scienza col rischio di derive assurde come, ho sentito da poco una cosa tipo “sono scienziato ma credo nella biodinamica”?
L’enologo deve necessariamente essere uno “scienziato emozionato” proprio perché deve indubbiamente conoscere approfonditamente le diverse discipline scientifiche che costituiscono l’enologia, ma deve anche avere la capacità di percepire ciò che il vino vuole trasmettere.
Il vino deve essere ascoltato, e solo un enologo emozionato – ma colto – può recepire ciò che il vino stesso gli suggerisce. Occorre intelligenza, conoscenza, emozione.
In effetti ciò che dici è vero, porre troppo l’accento sulle emozioni tralasciando la scienza può portare a situazioni poco comprensibili ed in effetti può realmente capitare di incontrare lo scienziato confuso che afferma di essere uno scienziato ma anche di credere nella biodinamica, probabilmente per giustificare una sua scelta di vita pensata a più stretto contatto e nel rispetto delle regole della natura. E questo può essere lecito per tutti e quindi anche per lo scienziato.
Che te ne pare dei vini naturali? E poi, non sarebbe meglio, come si suggerisce ultimamente, di chiamarli ancestrali lasciando da parte questa aggettivazione fuorviante?
I vini sono tutti “naturali”, perché ottenuti dalla trasformazione del frutto della vite attraverso processi naturali più o meno controllati dall’attività dell’uomo. Da questo punto di vista, quindi, è forse preferibile chiamarli “ancestrali”, in quanto l’aggettivazione richiama più fedelmente il fatto che il vino è stato ottenuto da processi spontanei, senza l’intervento dell’uomo, “come si faceva una volta”.
In giro è possibile trovare tantissima letteratura in cui vengono descritti i meccanismi con cui acqua e nutrienti vengono assorbiti dalle radici e del ruolo che queste componenti hanno all’interno delle piante. Tuttavia, sappiamo bene che una pianta non può crescere senza suolo. Certo esistono le coltivazioni cosiddette fuori suolo, ma non in ambito viti-vinicolo. Ho notato che, a fronte della vasta letteratura in merito alla fisiologia vegetale, c’è carenza di letteratura in merito ai meccanismi molecolari che consentono alle componenti della soluzione circolante (acqua e nutrienti in essa disciolti) di diffondersi negli orizzonti di suolo in cui crescono e proliferano le radici. Ho recentemente intervistato Robert White (l’intervista QUI) che, da eccezionale chimico del suolo, concordava sul fatto che pur essendoci ottimi studi in merito, ancora la letteratura e le competenze non sono vastissime né diffuse.
Intendo dire che la classica chimica del suolo che rileva l’importanza del pH, della capacità di scambio, della tessitura e della struttura dei suoli non è ben integrata con modelli matematici adeguati in grado di descrivere in che modo acqua e nutrienti ad essa legati sono in grado di muoversi per arrivare alla superficie delle radici. Ovviamente da tutto questo sto escludendo i modelli matematici legati alla fisica classica che sono in grado di descrivere la dinamica dell’acqua a livello macroscopico, ma non a livello molecolare. Pensi che una conoscenza del genere possa aiutare a migliorare la conoscenza delle viti e possa essere utile a migliorare produzione e qualità delle uve e dei vini da esse ottenute?
Non so realmente quanto questo sia attuabile in concreto ma credo sia importante capire attraverso un modello matematico come si muovono acqua e nutrienti nel suolo per arrivare alla superficie delle radici, allo scopo di migliorare la conoscenza delle viti e di conseguenza l’interazione con la qualità e la quantità delle produzioni. E ciò sarebbe auspicabile anche per riuscire ad ottimizzare l’apporto di nutrienti e limitare l’impiego dei concimi che vengono somministrati al terreno, spesso basandosi soltanto sul “sentito dire” o sui consigli del venditore.
So che in Italia non è consentito, ma ti faccio lo stesso questa domanda che, evidentemente, ha solo una rilevanza accademica. Secondo te, l’uso di tecniche definite OGM può aiutare a migliorare la qualità delle uve e, di conseguenza, anche la qualità dei vini che da esse sono prodotti?
Tralasciando l’aspetto etico, che, pure, è di cruciale importanza, credo che queste tecniche abbiano raggiunto una tale livello di perfezione da poter essere considerate “sicure” per la salute del consumatore, per cui ritengo alcune tecniche come la cisgenesi e il genome editing possano essere utilmente impiegate anche in viticoltura, in particolare per limitare fino ad arginare e soppiantare del tutto l’uso dei pesticidi.
La domanda precedente nasce anche da una considerazione personale legata al fatto che oggi, a parte poche cultivar in piccole zone della penisola, la viticultura si basa sull’uso di piedi americani resistenti alla fillossera. Mi chiedo se le tecnologie genetiche non possano permettere di ottenere delle viti resistenti alla fillossera ed evitare l’uso di innesti. Cosa ne pensi?
Sicuramente con le tecniche genetiche del DNA ricombinante si possono ottenere viti resistenti alla fillossera e, di conseguenza, sarebbe possibile arrivare ad evitare l’uso del piede americano, ma ritengo che la motivazione non sia di importanza tale da giustificare l’utilizzo di una tecnica molto discussa e per di più accolta con diffidenza dal consumatore.
In una tua intervista ti ho sentito dire che il vino ha vita. Questa immagine mi ha molto colpito. Posso chiederti cosa significa per te che un vino vive?
Il vino ha vita in quanto reagisce agli stimoli ambientali, talvolta con forza e vivacità, ripristinando e conservando le proprie caratteristiche.
Quanto il mercato enologico può indirizzare le scelte di un enologo e quanto un enologo può indirizzare, invece, il mercato? E a proposito, dove stanno andando i mercati? E come cambierà la figura e il ruolo dell’enologo?
L’obiettivo finale delle aziende è che il vino prodotto deve essere venduto e quindi consumato.
L’enologo ha il compito di capire il gusto del consumatore e di allineare le caratteristiche del vino alle aspettative del mercato, pur senza stravolgerle. Sarebbe inutile, per esempio, proporre al mercato cinese un vino rosso a medio contenuto alcolico, elegante e morbido: se si vuole vendere occorre adattare alla domanda il vino offerto sul mercato.
È difficile che l’enologo riesca ad indirizzare il mercato; con azioni di marketing e comunicazione può riuscire ad introdurre un vino in un certo mercato, ma non è detto che il consumatore lo accolga con favore.
Ciascun mercato ha esigenze proprie che scaturiscono dall’assetto genetico del consumatore e dalle abitudini del luogo. Il gusto, in particolare, non è uguale per tutti: la sua espressione è scritta nel nostro DNA e dipende molto dagli stimoli e dalle condizioni ambientali in cui viviamo.
Dove andranno i mercati? È difficile da prevedere in questo momento pandemico, probabilmente il consumatore, comunque sempre più attento ed esigente, ma soggetto a limitazioni della propria libertà, sarà portato ad apprezzare vini decisi e stimolanti, cioè vini particolarmente profumati, saporiti, freschi, ricchi di struttura e colore e nel contempo con una tessitura tannica spessa e setosa. Eleganti ma succosi.
Quindi, cosa c’è dietro un grande vino ora, magari rispetto a qualche decennio fa?
Una maggiore competenza e la consapevolezza delle potenzialità del territorio e dei vitigni.
Il trend, come molto appropriatamente affermi tu, è quello di vini sempre più eleganti e meno concentrati. L’anno scorso ho passato quasi un mese in giro per la Toscana ad assaggiare, dalle grandissime aziende alle micro-realtà e mi chiedevo quanto questa affermazione sia nazionale o al massimo europea e quanto vada bene anche per altri mercati, come ad esempio gli Stati uniti.
Credo che l’eleganza sia un fattore comune a tutti i mercati, almeno per quanto riguarda quella fascia di consumatori più esperti. La differenza è da ricercare nella struttura del vino, nel suo sviluppo gustativo, nella qualità e quantità del tannino. Lavorando sull’eleganza mi sono resa conto che un vino può essere elegante e nello stesso tempo possedere una certa concentrazione ed anche una tannicità importante, che infatti gioca un ruolo fondamentale nelle sensazioni tattili del vino ai fini della percezione dell’eleganza.
Recentemente ho letto un saggio sulla produzione e l’enologia emergente in Cina: è un mercato che potrebbe essere di tuo interesse? Che ne pensi anche delle scelte di vitigni che paiono seguire le impronte seguite svariati decenni fa in altre aree del mondo in cui poi si è sviluppato un fiorente mercato enologico?
Tutto ciò che è nuovo è interessante per me, sono curiosa, ma ritengo che il mercato cinese abbia bisogno di enologi che siano nella condizione di dedicare tutto il tempo necessario, che ritengo non sia poco, all’azienda; perciò, se ricevessi una richiesta di consulenza da un’impresa cinese, pur avendo la curiosità di conoscere nuovi territori e soprattutto di interpretare la filosofia dei produttori cinesi, non potrei accettare perché è proprio il tempo l’elemento che in questo momento mi manca del tutto.
Relativamente ai vitigni, concordo sulla scelta dei vitigni internazionali, in quanto costituiscono la base ampelografica dei vini più conosciuti dal mercato cinese.
Cultivar internazionali versus autoctoni: come la vedi?
Sono importanti entrambe: la scelta dell’una o dell’altra cultivar è legata alla vocazionalità dell’area di coltivazione e alle strategie di mercato delle aziende. Le varietà autoctone sono sicuramente vocate a un determinato territorio, ma possono essere più difficili da inserire nel mercato internazionale, quindi meno facili da vendere. Se sussistono le condizioni, le due tipologie di cultivar possono coesistere liberamente ed essere tutte impiegate con pari successo.
So che sei una grande ammiratrice dell’Ansonica: grande cultivar sicilianeggiante. Che ne pensi delle posizioni contrapposte tra le analisi genetiche del professor Massimo Labra – altro nostro ospite qui – non sarebbe propriamente un vero autoctono siciliano bensì originato dalla varietà greca Sideritis e Roditis e con una supposta affiliazione genetica con l’Airèn spagnolo e di contro l’interpretazione della Robinson che attraverso la collaborazione con Vouillamoz, ritiene che tale teoria dipenda solo dall’esiguità degli esemplari analizzati da Labra (non portando tuttavia prove a supporto)?
Molte varietà provengono dalla Grecia, per cui mi è facile pensare che il Prof. Labra abbia ragione, ma, non conoscendo bene il suo lavoro e non essendo il mio mestiere quello della valutazione dei risultati della ricerca scientifica, non mi permetto di azzardare ipotesi o assumere posizioni.
So che sei una grande ammiratrice del territorio dell’Etna – penso soprattutto al versante nord, di grandissima qualità – che cosa ci faresti tu potendo acquisire magari qualche ettaro in una delle contrade più promettenti?
Sicuramente impianterei il Nerello Mascalese ed il Carricante, due vitigni che hanno dimostrato di esprimere nel versante sud le loro grandi potenzialità. Non ho mai pensato, e tanto meno sognato, di diventare un produttore di vino, ma, se mi si presentasse l’opportunità di acquistare un piccolo appezzamento di terreno, un pensierino sul territorio dell’Etna ce lo farei.
Un grande vino: quanto è il vino in sé, quanto la comunicazione dello stesso, quanto ancora i punteggi che poi gli vengono attribuiti?
Un vino è grande per le sue peculiarità, per le sensazioni ed emozioni che è in grado di generare.
La comunicazione, così come i punteggi che gli vengono attribuiti sono importanti per farlo conoscere ed apprezzare, ma l’aspetto più rilevante e che incide di più è il suo modo di essere e di relazionarsi con chi lo consuma. Se il vino ha acquistato la sua fama grazie alla comunicazione ed ai punteggi è come un fuoco d’artificio: esplode, splende ma in un attimo si spegne e muore.
So che te lo chiedono tutti e mi adeguo anche io: sei una meravigliosa e affermatissima enologa, penso che molte persone, uomini e donne, farebbero carte false per essere riusciti a fare la tua carriera. Date le recenti diatribe, dalla schwa al femminile per le professioni, dunque: non pensi che ormai non avendo più nulla da dimostrare a nessuno potresti tranquillamente usare il femminile e farti chiamare enologa? Uno schiaffo ad un mondo davvero maschile e, forse, a volte pure parecchio maschilista?
Declino la mia professione al maschile non per aver da dimostrare qualcosa – in tutta sincerità non ho mai sentito questa esigenza, così come non ho mai avvertito un senso di inferiorità nei confronti di colleghi uomini –, ma per sottolineare il fatto che sono stata tra le prime donne ad esercitare questa professione.
Peraltro, ritengo che dal punto di vista fonetico la declinazione al femminile di questa bellissima professione non suoni proprio così bene, forse ad evidenziare che all’origine il termine non era stato affatto pensato in una versione “al femminile”.
Credo che il vero schiaffo, se così lo si vuole appellare, sia stato quello di aver dimostrato al mondo che l’enologo può essere Donna.
Siamo arrivati alle domande finali a cui tutti sottopongo tutti i miei sventurati ospiti.
Prima domanda finale: se disponessi di un finanziamento illimitato e pure a fondo perduto (magari ne esistessero!) cosa faresti? Niente limiti di spesa, niente rendicontazione, niente scadenze.
Utopia pura! Studierei un modello di agricoltura sostenibile ed ecologica, finalizzato al completo abbandono dell’uso dei pesticidi.
Seconda domanda finale: Francia o Italia?
Sicuramente Italia.
Credo nelle potenzialità del nostro Paese dal punto di vista viticolo ed enologico: la grande diversità di territori, di vitigni, di tradizioni ci permette di ottenere vini unici, autentici.
Terza domanda finale: se potessi rifare una annata, quale sceglieresti e perché?
Intendi cancellare una annata? Se il senso della domanda è questo, rifarei la 2003, in quanto il grande caldo, la mancanza delle escursioni termiche tra giorno e notte, le elevate temperature raggiunte durante il giorno compromisero totalmente la qualità delle uve e quindi dei vini. La ricordo come la peggiore annata.
Oppure intendi ripetere la mia “ottima annata”, per citare il film? In tal caso l’annata migliore è stata sicuramente il 2000, anno che ha segnato il mio passaggio da enologo bianchista ad enologo di grandi vini rossi, in quanto sono approdata a Bolgheri per prestare consulenza all’azienda Caccia al Piano e ho visto gettare le fondamenta della cantina di Fattoria di Magliano a Magliano in Toscana, dove l’anno dopo ho vinificato per la prima volta il Morellino di Scansano Heba ed il blend bordolese Poggio Bestiale.
Ultima delle ultime: una grande vittoria, una grande festa. Con cosa festeggi e chi vuoi al tuo tavolo?
Sceglierei Sassicaia 2016 e vorrei accanto a me al tavolo mio figlio.
Grazie mille Graziana, è stato davvero un onore e un privilegio averti mia ospite qui. Buon lavoro e al prossimo calice di capolavori come solo tu sai fare!
Bellissima intervista. Complimenti
Diciamo che con Graziana si vince molto facile.
È stata una chiacchierata talmente piacevole e così poetica che francamente si fa fatica a chiamarla intervista.
… .una festa Soave …. . 😉
😉