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Il vino nella scienza e la scienza del vino. Quattro chiacchiere con il microbiologo: Giancarlo Moschetti

Il professor Giancarlo Moschetti è ordinario di microbiologia agraria presso l’Università degli Studi di Palermo. È stato per due mandati consecutivi coordinatore del Corso di Studi in Viticultura ed Enologia presso la sede di Marsala dell’Università degli studi di Palermo. I vini da lui seguiti sono stati insigniti di ambiti riconoscimenti come i “tre bicchieri” del Gambero Rosso 2009 e il premio “vino slow” di SloWine nel 2011.

Professore, ci diamo del tu?

Eh certo e grazie per questa chiacchierata scientifica.

Grazie a te! Ci parli un poco del tuo percorso accademico e di come ti sei appassionato alla microbiologia?

Sono sempre stato un amante della natura e mi sono appassionato al mondo dei microrganismi per la loro capacità di colonizzare tutti gli habitat finanche quelli più estremi. Inoltre, mi ha sempre affascinato questa “simbiosi” tra essere umano e microrganismi fermentativi.
Mi immagino quando l’uomo ha scoperto che le bevande zuccherine lasciate all’aria si trasformavano in “nettare degli dei” che gli provocano allegria, ebrezza.

Euripide – Le Baccanti

Per non parlare della trasformazione dell’acqua e farina in pane. Non a caso pane e vino sono da sempre considerati cibi esoterici, divini, che sono dei capisaldi della religione cristiana. In pratica il lievito, l’invisibile, sarebbe lo spirito santo. Pertanto anche gli approcci scientifici al mondo biotecnologico li ho voluti sempre analizzare in una visione naturale del sistema, mettendomi nei panni del microrganismo, piuttosto che dell’uomo che ne usufruisce.

Sei specializzato nello studio dei lieviti autoctoni. Ho visto che recentemente sono stati pubblicati tuoi lavori sui lieviti del Grillo di cui abbiamo parlato su questo blog qualche tempo fa. Ci dici qualche cosa in merito?

Una premessa sui lieviti autoctoni: la comunità scientifica si divide nei detrattori di tali lieviti (non esistono i lieviti autoctoni) e in quelli che con lavori scientifici internazionali hanno dimostrato la territorialità di tali lieviti.
È dal 2002 che isolo e seleziono lieviti “autoctoni”, “selvaggi”, “indigeni” “territoriali” dall’habitat vigneto. Dopo 20 anni di studi sull’ecologia e comportamento dei lieviti vinari, dopo aver seguito sperimentalmente aziende che utilizzavano lieviti selezionati commerciali o indigeni del territorio o addirittura fermentazioni spontanee, la mia risposta alla fatidica domanda: “È meglio utilizzare lieviti selezionati commerciali o lieviti selezionati indigeni?” è questa:

sarebbe meglio non utilizzare lieviti selezionati in generale, ma assecondare l’annata utilizzando i lieviti naturalmente presenti nel mosto previo utilizzo del protocollo “pied de cuve fortificato” messo a punto dal mio gruppo di ricerca UNIPA
(Moschetti, G., et al, 2016: Use of fortified pied de cuve as an innovative method to start spontaneous alcoholic fermentation for red winemaking. Australian journal of grape and wine research : 22, 36-45 DOI: 10.1111/ajgw.12166).

Tuttavia, sono pienamente cosciente che questo tipo di fermentazione richiede conoscenza della biodiversità blastomicetica del vigneto, molta attenzione durante il processo di vinificazione, maniacale igiene nella cantina, cura nei dettagli, qualità ottimale delle uve di partenza, uve provenienti da vigneti gestiti in biologico o comunque senza uso di pesticidi, erbicidi che decrementano la biodiversità microbica dell’ambiente viticolo.

Pertanto, in mancanza di quanto sopra detto, mi sembra evidente che vinificare delle uve utilizzando un ceppo di lievito isolato e selezionato dall’uva da fermentare, cioè dal territorio dove è sito il vigneto, ha un grande vantaggio rispetto all’utilizzo di lieviti selezionati commerciali: quel ceppo di lievito appartiene solo all’azienda che vinifica quell’uva e pertanto è unico, non ripetibile da altre aziende.
Non a caso molte aziende italiane (cito ad esempio Masi nella Valpolicella o Benanti sull’Etna, il Verro a Formicola -CE- e Di Bella vini a Noto -SR-) utilizzano lieviti che possiamo definire aziendali, cioè di proprietà esclusiva.
Pertanto, all’unicità del territorio di produzione dell’uva, ai vari fattori bio-pedoclimatici unici del vigneto, all’unicità del protocollo di vinificazione, ai tipi di legno utilizzati ed altri parametri che concorrono a rendere unico e tipico quel vino anche se prodotto con la stessa varietà d’uva, aggiungiamo l’attore principale della trasformazione degli zuccheri in alcool, cioè un ceppo di lievito, rafforziamo l’unicità del nostro prodotto aziendale. Quindi il preferire il ceppo selezionato indigeno è soltanto per rendere più unico il prodotto commerciale. E non mi sembra poco, vista la concorrenza notevole che c’è nel campo enologico.

I lieviti selezionati commerciali non sono altro che lieviti indigeni di un certo areale con caratteristiche tecnologiche migliori della media di altri lieviti che vengono isolati, selezionati e moltiplicati per essere poi utilizzati dalle aziende vitivinicole. Tutto qui.

Lieviti

Rimane comunque il più grande problema nell’utilizzo di un ceppo di lievito selezionato: che il ceppo selezionato è un unico individuo. Invece la fermentazione spontanea è portata avanti non da un unico individuo, ma da molti ceppi di Sacc. cerevisiae che collaborano insieme e portano avanti il processo di fermentazione.

Quindi è un consorzio di individui appartenenti sempre alla specie Sacch. cerevisiae, che colonizzano l’habitat mosto e lo trasformano in vino. Un individuo da solo, cioè un ceppo, è in grado di fare tutto bene? Questo è il quesito principale che dobbiamo porci. Tu sei in grado di fare tutto bene? Non credo.

Sempre in merito alla vinificazione senza lieviti aggiunti, ritieni che sia solo una moda passeggera o possa essere il futuro della vinificazione?

Ti ricordo che tutti i grandi vini che abbiamo degustato ante 1980 erano prodotti senza aggiunta di lieviti selezionati. E’ del 1977 il Decreto Ministeriale che permette l’uso di lieviti aggiunti per la fermentazione del mosto. E, data l’età, ti assicuro che ho bevuto dei vini a fermentazione spontanea spettacolari, come il Brunello di Montalcino Biondi Santi del 1975 o il Barolo Ceretto 1971, giusto per citarne qualcuno.

So che produci vino. Puoi dirci qualcosa sulle cultivar che allevi? Dove si trovano I tuoi vitigni? Che terreno c’è? Come mai hai scelto proprio quelle cultivar?

Del vino 2Vite 2018 (www.2Vite.it) ne parlerò alla presentazione ufficiale che si terrà a novembre 2020.

2Vite

Ma ti anticipo alcune cose: nel mio vino troverai esclusivamente le mie uve di Aglianico e Piedirosso e un pizzico di metabisolfito. Dico un pizzico perché sono poco tollerante ai solfiti.

Seconda novità: la gestione dei vigneti e le pratiche di cantine sono state gestite secondo il Metodo Me.Mo. (acronimo di Mercurio il mio amico enologo e Moschetti).

[n.d.r. MORIAMO DI CURIOSITÀ!]

Ci dici qualcosa sul tuo modo di vinificare e sui vini che produci? quali sono le tue pratiche di cantina?

Non ti offendere, ma svelerò tutto il giorno della degustazione di 2Vite 2018. Ma ti anticipo un’altra novità: utilizziamo i nostri corpi per la pratica della follatura invece di usare attrezzi metallici. Più naturale di così!

Piedirosso

Il trend degli ultimi decenni ha visto un recupero importante di cultivar autoctone. Tuttavia, ultimamente, da un report della American Association of Wine Economists (AAWE), seppur non con dati completamente aggiornati, si evince che, anche se con qualche eccezione come il Catarratto, l’andamento generale è quello di un ridimensionamento degli spazi dedicati agli autoctoni. Cosa ne pensi di questo andamento? Come la vedi per la Sicilia e per la Campania?

La nostra piattaforma ampelografica è un fiore all’occhiello dell’enologia mondiale. Pensa che tra autorizzati e da autorizzare si conoscono ben 1320 vitigni “autoctoni” italiani. Capirai che il potere economico potenziale che ha l’Italia con i suoi vitigni è enorme. A mio avviso bisogna perseverare su questa strada della unicità, tipicità e territorialità, specie in regioni di media emergenza come la Sicilia e la Campania

Della serie “famolo strano”, cosa ne pensi della moda attuale di spumantizzare ogni tipologia di cultivar?

“Va dove ti porta il soldo” caro mio!!!
“Le bollicine sono richieste? Spumantizziamo l’impossibile!”
A parte gli scherzi, come sempre bisogna contestualizzare il problema: ci sono regioni sicuramente più vocate per questo tipo di vino ed altre meno vocate per problemi di bassa acidità o tipo di vitigno. La ricerca scientifica però può giocare un ruolo chiave nelle regioni meno vocate. Un esempio: in Sicilia, il nostro gruppo di ricerca del Dipartimento SAAF – in collaborazione con la Cantina Europa nell’ambito di un progetto finanziato dal MISE – ha messo a punto un protocollo per produrre vini base per spumante, utilizzando i grappoletti secondari del Grillo (i racemi nati dalle femminelle) che hanno altissimi contenuti di acido malico e bassissimi concentrazioni di zuccheri. Anche in questo caso la selezione di ceppi di lievito, capaci di fermentare un mosto atipico a pH 2,6, è stata fondamentale per portare avanti questa idea progettuale. Il vino ottenuto viene poi miscelato al 10-20% con vino ottenuto invece da normali grappoli di Grillo per costituire un vino base da fermentare in bottiglia o in autoclave.
Pertanto, senza l’aggiunta di coadiuvanti enologici quali l’acido tartarico, riusciamo ad ottenere spumanti molto interessanti e ad un prezzo in linea con il mercato.

Spumante

Cosa ne pensi dei vini orange e dell’utilizzo delle anfore?

Così come sono favorevole alla biodiversità sono favorevole alla diversità nella degustazione di vini. Ricordiamoci sempre che il vino deve essere abbinato ad un cibo e ci sono dei piatti che hanno bisogno di orange wine o della mineralità dei vini in anfora.

Domanda provocatoria numero 1.
Ipotizziamo che ti fosse messo a disposizione un fondo illimitato da poter gestire per la Viticultura in Sicilia, senza controlli, senza vincoli, senza dover rendicontare. Cosa faresti?

La prima cosa che farei? Un grande programma di zonazione viticola per comprendere bene le potenzialità dei diversi territori siciliani. Inoltre, dopo corsi di formazione, imporrei la Viticoltura biologica come unica pratica agricola sostenibile in Sicilia con obbligo di compostaggio aziendale per la valorizzazione della sostanza organica. Obbligherei le cantine sociali a pagare l’uva non solo a Babo 20 e a peso, ma con premialità incrementale: in pratica si parte da 50 centesimi a chilo e si possono aggiungere bonus di 10 centesimi a parametro se la tua uva ha delle caratteristiche particolari che la elevano dalla massa.

Domanda provocatoria numero 2.
Molte aziende si sono date alla biodinamica. Cosa pensi di questa pratica?

Bella domanda!
Il 60% di quello che ho letto sulle pratiche di biodinamiche in vigna e in cantina sono praticamente simili a quello che facciamo noi per la produzione del nostro vino. Le pratiche esoteriche invece non le applichiamo, non perché contrari, ma perché non supportate da ricerche scientifiche.

Ultimissima dopo l’ultima.
Ti ho visto in una tua foto dentro un tino che pigiavi l’uva. Posso venire anche io?

Wow! Sarebbe un onore e un piacere!

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